08 Apr Muratore oggi e domani
Dialogo-intervista di Pietro Folena con Alessandro Genovesi, segretario della FILLEA CGIL
Alessandro, tu sei “romano de Roma”. A Roma i muratori, e il lavoro nell’edilizia sono stati parte integrante della storia. Il neorealismo, e poi Pier Paolo Pasolini, hanno raccontato come i cantieri e l’edilizia selvaggia, fino al sacco di Roma, hanno cambiato la città. La tua vicenda personale racconta che sei venuto dalle lotte studentesche, e dal primo associazionismo sindacale nelle scuole. Poi, dopo un’esperienza più direttamente politica – abbiamo anche collaborato insieme – hai scelto l’impegno sindacale. Ora sei uno dei leader sindacali più popolari e riconosciuti nella categoria che dirigi. Ti senti un po’ espressione di questa tradizione popolare del mondo del lavoro nei cantieri?
Dirigere il sindacato degli edili Cgil con i suoi 137 anni di storia è un grande onore. La Fillea ha attraversato la storia: dai primi scioperi di fine ottocento alla lotta al fascismo, dal Piano del Lavoro e la ricostruzione post bellica alla nascita, selvaggia e speculativa, delle grandi borgate e poi opere che hanno unito l’Italia, la battaglia per il diritto alla casa e le tante tragedie che hanno imposto “complicate” ricostruzioni (pensiamo ai terremoti dell’Irpinia o più recente de L’Aquila o del centro Italia), in un contrasto permanente contro mafie e caporali. Con un di più per un romano: nella città eterna la classe operaia propriamente detta erano e sono ancora fondamentalmente gli edili. È la Fillea di Cianca e di Fredda, veri e propri leader di popolo, con dirigenti nazionali come Quaglino amico di Matteotti e stimato dallo stesso Gramsci e poi Scheda, Capodoglio, Cerri, Nerli, Brodolini (il papà dello Statuto dei Lavoratori) solo per citare figure che ritroviamo nella vita politica del Paese. Una categoria molto politicizzata e contro cui venne usata anche Gladio. Spero di essere in sintonia con questa tradizione politica e sindacale, forte nei principi ma anche molto pragmatica, aperta al cambiamento e legata sempre alla concretezza, dove ogni avanzamento anche se parziale va bene se la direzione è giusta. Una categoria innovativa che ha inventato “le casse edili”, l’anzianità professionale come portato individuale e tante altre tutele pensate per un mondo pre-fordista (forte discontinuità lavorativa, imprese piccole, mobilità e dispersione territoriale) e oggi di un’attualità sconvolgente.
Personalmente devo molto ai dirigenti che mi hanno “cresciuto”, non sta a me dire se bene o male. Certo è che sono tutti figli di quella cultura politica che Pasolini definiva “in un Paese sporco, l’altro paese”. Nei partiti in cui ho militato, con dirigenti come te, ma penso anche a Nappi, Mussi fino a Giovanni Berlinguer, con i sindacalisti che ho frequentato (Agostini, Casadio, Cofferati, Nerozzi, Passoni, Miceli, Solari e, quando già europarlamentare Trentin), intellettuali per quanto eretici come Magri o la Castellina o ancora Mezza per non dire di Benetollo. Vi è sempre stato un filo rosso, pur nelle mille diverse sensibilità: un comune sentire, una comune lettura dei processi e della militanza per cui l’unica azione possibile è collettiva. E anche, aggiungo, una fondamentale curiosità verso il nuovo.
Fammi un identikit “tipico” – se esiste- del lavoratore edile del 2023-2024? E che cosa è rimasto della figura più antica del muratore?
Oggi l’edile è ancora un mix di neo-artigianalità, capacità artistica e organizzativa, a cui viene richiesta però sempre più abilità tecnologica, con nuovi macchinari complessi, costosissimi e che sono un concentrato di sensorialistica. È più anziano rispetto alla media di altri settori (49 anni contro una media di 43) e 4 volte su 10 è migrante o di origine straniera (spesso di seconda e terza generazione). È un lavoratore che conosce contesti sempre più polarizzati: da un lato aziende strutturate e innovative, anche di piccole dimensioni, dall’altro aziende con caporali e cottimo a non finire.
Ci hanno detto che viviamo nella società del post lavoro, e che dopo la fine del fordismo e l’emersione dell’operaio sociale, con l’automazione e l’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi siamo di fronte alla «fine del lavoro» (ne parlava già Jeremy Rifkin a metà degli anni Novanta). E tuttavia nel mondo delle costruzioni la componente umana rimane molto importante. Nei paesi meno sviluppati è addirittura cresciuta, ma pure nelle società in cui il ruolo delle nuove tecnologie ha già impattato pesantemente sulla dinamica occupazionale, il lavoro rimane centrale anche in termini identitari, di percezione di sé, di rilevanza nei percorsi esistenziali individuali e collettivi. Sei d’accordo con questa lettura? Cos’è il lavoro per te? Qual è il suo senso e il suo significato? E cosa significa oggi idealmente e concretamente quanto scritto nell’articolo 1 della Costituzione, l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro?
Il lavoro rimane il principale strumento di dignità e libertà. Anche di Libertà negata come dimostrano le quotidiane storie di sfruttamento e morte in cantiere. La strage di Firenze al cantiere Esselunga altro non è che la fotografia di quanto avviene soprattutto negli appalti privati, dove il profitto è l’unica variabile indipendente e il lavoro merce deperibile, ribassabile all’infinito. L’onda lunga di quel manifesto liberista che fu “il libro bianco di Maroni” ad inizio 2000 e che portò al superamento della legge 1369 del 60 (quello contro il caporalato e che prevedeva limiti agli appalti) ha portato alla giunga nei rapporti produttivi, al subappalto infinito, alla totale deregolamentazione dei rapporti di lavoro in cantiere, alla compressione di salari e tutele… per questo oggi il lavoro rimane ancora “il campo da gioco” tra chi rivendica più giustizia sociale e libertà che è libertà dai bisogni per via del salario si intende, ma libertà e dignità, direi “senso”, in quanto è il nostro contributo principale alla trasformazione dell’esistente. Siamo quello che facciamo e il lavoro è ancora una delle condizioni principali della nostra espressione. Semmai il tema è quale lavoro reale e quale lavoro possibile, meno faticoso e con meno ore, con le tecnologie che servono la liberazione del nostro tempo e non l’opposto con il “tempo colonizzato che libera il potere tecnologico”. Alla fine rimane sempre una questione di modello di sviluppo, di soggetti sociali e produttivi che agiscono, di interessi che diventano egemonici perché organizzati dalla parte giusta della storia.
I processi di automazione mangiano il lavoro, e lo parcellizzano. La disoccupazione è l’effetto del mismatch tra domanda e offerta nel mercato del lavoro indotto da quei processi. La precarietà è ormai un fattore endemico e caratterizzante della nostra economia, dalla giungla contrattuale, a tutte le tipologie di lavoro, all’assenza di tutele. Il lavoro è sempre più povero, e l’Italia (dati sui salari, perdita di potere d’acquisto negli ultimi trent’anni, etc.) è in fondo alla classifica continentale. Mi offri la tua lettura di questo processo, e che previsioni fai, da qui al 2050?
Veniamo da quarant’anni di egemonia liberista per cui l’azienda è il soggetto sociale centrale e il mercato assunto come un dogma, tanto che è passata l’idea che non c’è alternativa all’attuale modello di produzione, di Stato, di relazioni sociali. Gli inglesi la chiamano Thina (there is no alternative). Per raggiungere questo risultato il lavoro è stato svuotato di senso e potere da dentro (corporativizzazione, frammentazione dei cicli produttivi) e da fuori (la tecnologia che estrae valore e non lo redistribuisce). La crisi della sinistra e del sindacato confederale sta in questo assedio permanente contro cui dobbiamo ricostruire non solo una lettura del mondo ma anche nuovi soggetti sociali, creativi, positivi che possano affiancarsi al lavoro organizzato e soprattutto disperso, per portare la società a discutere e costruire altro. A partire da come generiamo nuovo lavoro, basato sui bisogni sociali e ambientali, stabile e di qualità e quale organizzazione collettiva diamo a questa “vertenza generale”, sapendo che non possiamo (e non dobbiamo forse) tornare neanche al vecchio compromesso capitale-lavoro espresso dal welfare state dei gloriosi anni 70, ma ad un modello nuovo anche per noi. O facciamo questo o non so se ci arriviamo al 2050.
Non è il momento di lanciare una grande offensiva per ridurre e redistribuire il tempo del lavoro? Nel movimento francese contro la riforma delle pensioni c’era una grande domanda di liberare il tempo di non lavoro, estendendolo e arricchendolo. Cosa ne pensi? L’esperienza tedesca insegna che la difesa dei salari durante le fasi di inflazione, e il loro rafforzamento è la condizione di un’economia forte e strutturata. Facciamo il punto sulla questione salariale, sulla battaglia per il salario minimo e sulle forme di contrattazione.
Oggi il tema di fondo, anche ai fini della sostenibilità e soprattutto della riconversione ambientale, è mettere la tecnologia al servizio dell’uomo e non l’opposto. Oggi possiamo tutti lavorare di meno e godere di beni sociali maggiori. Ma per fare questo occorre riorganizzare tutto: una visione politica, strumenti di pianificazione e programmazione pubblica (a livello mondiale, europeo, nazionale e finanche locale), strumenti sociali, a partire da nuovi modelli di contrattazione collettiva e di partecipazione economica, che assumano questi obiettivi (redistribuzione di salario, di tempo, di saperi) al centro di una nuova stagione. Sfidando anche una parte del mondo dell’imprenditoria che è ben consapevole del rischio, per il sistema Paese, di collocarsi nella parte bassa della nuova divisione internazionale del lavoro.
Larga parte della ricchezza nell’Italia della ricostruzione post-bellica è stata costruita da un capitalismo fondiario e dal mondo dei costruttori. Siamo di fronte a un cambiamento di equilibri, oppure qui rimane il cuore, o uno dei centri del potere economico del Paese?
La rendita rimane il problema del nostro Paese. La rendita immobiliare che sta continuando ad aumentare il numero e la dimensioni delle periferie (urbane e sociali), che sta rimodellando le città, che continua a condizionare la nostra economia. Rendita, risparmio congelato, speculazione sono ancora elementi presenti e non poco nei limiti di sviluppo del nostro paese.
Il PNRR interviene fortemente nel settore delle costruzioni e delle opere pubbliche. Che ruolo vertenziale e di controllo può avere il sindacato degli edili?
Il Sindacato sta agendo il massimo possibile di controllo. Quantitativo in termini di occupazione regolare, legale e con la corretta applicazione di leggi e contratti collettivi (si vedano i rinnovi dei CCNL del 2018 e 2022, l’introduzione del Durc di Congruità, la subordinazione degli incentivi edili all’obbligo di applicazione dei nostri CCNL). Ma anche qualitativo: questa è la sfida della formazione, della crescita professionale, del corretto inquadramento dal lato dei lavoratori e della qualità delle opere, dell’alto contenuto tecnologico, della virata sull’efficienza energetica lato imprese e lato domanda.
Appalti, subappalti, insicurezza del lavoro. Si stanno facendo pesanti passi indietro con la destra al Governo?
Sì, è evidente. Aver liberalizzato il subappalto, il cosiddetto subappalto a cascata, che fino a giugno 2023 era vietato, aver indebolito l’obbligo di applicazione dei CCNL edili, fa il paio normativo con un passaggio di fase: da “fare presto e bene” a “fare e spendere a prescindere”. E se ovviamente il pubblico dà segnali di tornare ad una competizione tutta basata sulla compressione dei costi del lavoro e della sicurezza, il messaggio al privato è ancora più dirompente. L’aumento degli infortuni e delle morti non è che l’effetto di questa “fretta senza regole” che poi colpisce la vita e l’integrità fisica dei lavoratori, nei cantieri e non solo.
Come vedi il processo di transizione ecologica nel settore di cui ti occupi? La Fillea come impugna la bandiera della messa in sicurezza del territorio, che ad ogni forte pioggia – coi cambiamenti climatici in atto – o di fronte ad altri eventi naturali mostra oggi una fragilità addirittura superiore rispetto a quella del 4 novembre 1966?
La Fillea Cgil con il suo manifesto politico sindacale “Rigeneriamo le Città, Rigeneriamo il Lavoro, Rigeneriamo la Democrazia” ha chiaramente indicato che solo nella rigenerazione, nella tutela del territorio, nel recupero del costruito, in quello che chiamiamo – in sintesi – welfare del territorio e welfare della persona, vi è il futuro del settore, dei suoi lavoratori, del Paese.
Quale ruolo possono assumere lo Stato e il pubblico nella costruzione e gestione del lavoro? C’è qualcosa delle vecchie politiche IRI e delle Partecipazioni Statali che va ripreso?
Il pubblico può svolgere un grande ruolo, pensiamo solo all’attuazione del PNRR e più in generale degli interventi di manutenzione e anche di costruzione di nuove opere (grandi e piccole). Nel nostro settore addirittura potrebbe già operare una grande svolta, anche con l’obiettivo di alimentare domanda industriale, produzione di specifici materiali (pensiamo alla domanda di acciaio nazionale – ex Ilva) e macchinari, specializzazione degli indotti. We Build (ex Salini-Impregilo) vede Cassa Depositi e Prestiti tra i principali azionisti, Aspi uguale, RFI e Anas (gruppo FF.SS.) sono ancora in mano allo Stato, così come Fincantieri. Insomma oggi la contraddizione è proprio quella di avere il pubblico come Azionista di riferimento in aziende però mosse in gran parte da logiche solo di impresa e non di sistema.
Come si possono unificare figure parcellizzate e atomizzate con settori organizzati e sindacalizzati?
Per assurdo rafforzando e generalizzando in altri settori quel patrimonio di tutele che la contrattazione collettiva edile ed i suoi strumenti (Cassa Edile, Scuole Edili, Cpt) oggi provano a garantire a lavoratori dispersi, discontinui nelle carriere, spesso impiegati in aziende piccole, lungo filiere sempre più disperse.
Ha senso il concetto di lotta di classe? E se sì, in che termini?
Se per classe intendiamo ancora chi sfrutta e chi è sfruttato, chi esercita un potere economico, politico e culturale per difendere i propri privilegi ed estrarre sempre più valore dal lavoro fisico, intellettuale e finanche “consumeristico” di altri… allora certo che i concetti di classe e di lotta (redistributiva o modificatrice poco conta) esistono.
Il sindacato ha sopperito in questi anni troppo spesso a un vuoto. Tu pensi che il sindacato debba svolgere una funzione politica generale? Di supporto ai partiti? Insieme ai partiti? Indipendentemente dai partiti?
Il Sindacato deve mai come oggi fare il sindacato, cioè difendere gli interessi dei lavoratori, vecchi e nuovi, soprattutto a fronte di un attacco, dai contratti nazionali alla stabilità dell’occupazione, allo stato sociale e finanche al diritto di sciopero, come mai negli ultimi tempi. Sicuramente un sindacato confederale come la Cgil deve saperlo fare sempre tenendo insieme una visione particolare con una visione generale di modello, porsi il tema che i diritti e le libertà devono agire in una dimensione collettiva, dentro e fuori i confini aziendali, fisici o virtuali che siano. E per questo la Cgil non potrà mai essere indipendente. Autonoma certo, come lo è sempre stata, in quanto la sua legittimazione e le sue elaborazioni vengono dai propri iscritti e simpatizzanti, ma non indipendente o neutrale. Noi siamo parte di un campo, espressione di una cultura politica, quella di sinistra, per ricorrere ai principi enucleati da Bobbio. E dobbiamo incalzare, sfidare in positivo tutte le forze politiche che si richiamano alla tradizione socialista, progressista, ecologista e democratica. Sfidarle nell’azione di tutti i giorni che non è solo attività parlamentare o amministrativa, ma ricostruzione di senso e partecipazione.
Pensi che nel sindacato sia risolta la questione democratica e della rappresentanza? Oppure gli apparati strutturati esercitano un potere che spesso prescinde dal mandato ricevuto dai lavoratori?
Il sindacato, come tutte le organizzazioni complesse e di massa, dovrebbe vivere su un sano equilibrio tra democrazia diretta (dei lavoratori), democrazia delegata (i delegati, i militanti, i funzionari e segretari eletti) e democrazia di organizzazione (perché non dobbiamo rinunciare alla nostra funzione “educatrice” per dirla con Gramsci, non è che se il 90% dei lavoratori è, per fare un paradosso, razzista allora noi dobbiamo diventare un sindacato razzista). Quando quell’equilibrio rischia di rompersi (ed è un rischio sempre presente e qualche volta anche “esploso”) soffre la democrazia e la rappresentanza: si può essere preda di facili populismi o sconfinare nell’opportunismo, oppure diventare una burocrazia brezneviana e autoreferenziale. Queste tre “fonti” vanno sempre alimentate, costruite, sapendo mettersi in discussione ogni giorno.
Una considerazione finale sulle guerre. Cosa può fare il mondo del lavoro per fermare questa spirale terribile?
Il mondo del lavoro deve mettere a disposizione la propria forza organizzata e la propria natura pacifista quasi in “re ipsa” a disposizione di politiche ed istituzioni pronte a scommettere sulla pace e su un nuovo ordine mondiale multipolare. Magari, se penso all’Ue, cominciando a dare l’esempio con più cooperazione internazionale e più autonomia politica. Mi viene in mente quanto disse Felice Quaglino all’epoca della lotta degli edili contro la prima guerra mondiale: “noi che passiamo la vita a costruire case, scuole, ospedali e strade, siamo e saremo sempre contro la follia di chi distrugge il frutto della nostra fatica. Noi siamo per costruire ponti, non per alzare muri o scavare fosse”. Ecco io sono ancora fermo a questo punto.
– Foto di Matteo Oi dal Congresso Nazionale Fillea 8-10 Febbraio