01 Feb Tra alienazione e conflitto
Perché dedicare questo numero monografico di Malacoda al lavoro? Perché abbiamo la pretesa di prestare attenzione alla società nella quale siamo immersi, alla sua forma e alla sua struttura; e al contempo alla vita di chi la abita, alle passioni e alle inquietudini dell’umano. E per la struttura sociale e per la vita di ciascuno esiste poco che sia più centrale e più determinante del lavoro. Ma anche poco che oggi, per apparente paradosso, sia più vessato, quando non rimosso e occultato, dalle nuove grandi narrazioni del presente e, ancor di più, dalla politica e dalla sua agenda.
Intendiamoci: è fuori discussione il fatto che il lavoro esca trasformato da questa lunga transizione d’epoca cui la rivoluzione conservatrice della metà degli anni Settanta del secolo scorso ha dato avvio. Una rivoluzione conservatrice che ha trasformato l’Occidente fordista, incardinato sul compromesso tra lavoro e capitale, in una società sempre più asimmetrica e parcellizzata. Ciascuno dei processi che connotano la svolta neo-liberale ha avuto come effetto l’indebolimento del lavoro: dalla frammentazione della produzione alla precarizzazione dei contratti, sino alla macroscopica evidenza di una finanziarizzazione che ha eroso la base industriale. A queste evidenze di ormai lungo periodo si aggiungono oggi gli effetti dell’automazione e dell’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi, che modificano e complessificano ulteriormente i fattori del sistema.
E tuttavia non scrivono, né la rivoluzione conservatrice né la nuova rivoluzione tecnologica, una storia altra, estranea a quella che abbiamo imparato a conoscere nella lunga modernità capitalistica. Si tratta di nuovi capitoli della medesima storia, fondata sulla persistente divisione tra chi vende e chi acquista forza lavoro. Una lunga storia animata da conflitti, contraddizioni, compromessi, avanzamenti e arretramenti. Che continua, pur nelle difficoltà e nello smarrimento della coscienza di sé di quel soggetto lavoratore, «classe generale», che ha sempre legato alla propria capacità di lotta i destini dell’intero. Ma come non vedere che il lavoro è ancora, malgrado questo o precisamente a causa di questo, al centro della dinamica sociale? Lo dimostra la sempre più invasiva, seppur contraddittoria, rilevanza del lavoro e delle sue condizioni materiali nei percorsi esistenziali di ciascuno. Altro che «società del post lavoro», altro che «fine del lavoro»!
Il problema, semmai, è proprio lo smarrimento della consapevolezza collettiva, ma che è a sua volta l’effetto di una rimozione e di un occultamento di cui il lavoro è stato ed è fatto oggetto da parte di una narrazione egemonica che ha avuto ed ha bisogno, per ridurre la conflittualità del lavoro e piegare la soggettività del lavoro, di ridimensionarne il peso e il senso nel discorso pubblico. Con straordinarie, evidentissime, responsabilità della sinistra politica, in particolare di quella italiana, che a partire dagli anni Ottanta ha scelto di accompagnare questo ridimensionamento, facendosi essa stessa alfiere di un disarmo teorico, politico e organizzativo che sul lungo periodo, per eterogenesi dei fini, indebolendo il lavoro l’ha resa più fragile.
Ma mentre la sinistra evaporava dai luoghi della produzione, smarrendo la capacità di comprendere i processi e di esprimere, a partire da lì, traiettorie politiche e valoriali alternative, si consolidava la morsa del lavoro sui tempi della vita. Si pensi soltanto alla coda estrema di questo percorso, si guardi alla società post-pandemica, con il vaso di Pandora delle mille contraddizioni irrisolte finalmente scoperchiato: il confine tra fabbrica, ufficio e casa è sempre più incerto, come quello che divide il tempo di lavoro e il tempo di vita. La frammentazione del ciclo produttivo tracima nella liquefazione degli stessi luoghi della produzione, materiale e intellettuale. Con quali effetti sul terreno dell’alienazione? Si tratta di una riflessione centrale, da riprendere perché ha a che fare con uno dei carattere costitutivi del lavoro capitalistico. Marx ha ancora molto da dirci: all’interno del modo di produzione capitalistico il lavoro è alienante perché non produce soltanto merci, ma produce se stesso e il lavoratore nella forma di una merce. L’oggetto prodotto dal lavoro diventa cioè un corpo estraneo al lavoratore, una vera e propria potenza indipendente. L’operaio è privato di ciò che produce e contemporaneamente schiavo, «sotto il dominio del suo prodotto, del capitale». E a questa altezza si sprigiona la forza dell’alienazione entro la stessa attività producente, nella forma di quella spersonalizzazione alienante che fa del lavoro un soggetto esterno all’operaio e che dunque impedisce all’operaio di affermarsi in quanto tale all’interno del lavoro. L’estraneità del lavoro rispetto all’essere operaio fa sì che l’operaio, al contrario, si neghi e si annichilisca nel lavoro, sviluppi la sua propria infelicità, la mortificazione del suo corpo e del suo spirito. Solo a condizione di recuperare soggettivamente la coscienza dell’espropriazione è possibile sperimentare la potenzialità liberatoria e progressiva del lavoro. Per questo è così importante interrogarsi sul livello di coscienza, sulla maturità della percezione collettiva di sé da parte del lavoro. A maggior ragione oggi, giacché il lavoro operaio tocca una dimensione incomparabilmente più vasta di quella del secolo scorso. Non è lavoro operaio, letto in questa prospettiva, ogni lavoro subordinato, ogni lavoro che non innesca una relazione di libertà, che non valorizza il talento e che non offre il prodotto lavorato a una fruizione consapevole e collettiva?
Per capirlo, occorrerebbe oggi una grande operazione di ascolto. Gli impiegati delle grandi imprese in smart working e i raccoglitori di pomodori, i mulettisti e i precari della cultura, del teatro, della musica, dell’arte. Occorrerebbe ascoltare il lavoro, farlo parlare. Restituire la parola, attraverso l’antico e modernissimo strumento dell’inchiesta operaia, ai suoi protagonisti e alle sue protagoniste. A chi sta nei campi, in fabbrica, nei magazzini, nei call center, sulle biciclette e gli scooter per otto, dieci ore, con ripetitività e, spesso, senso di smarrimento. Un’angoscia che è simile a quella del tirocinante avvocato, del giovane libero professionista senza reti di protezione familiare. Del ricercatore universitario precario, senza alcuna possibilità di accendere un mutuo e costruire una famiglia. Senza alcuna sicurezza rispetto al proprio destino. Con la sensazione di appassire dentro, di non trovare appagamento in quello che si fa e in quello che si è. È il contrario del «fiorire» (termine splendido del Marx umanista), del realizzare quel percorso di vita piena e densa cui vorremmo potere aspirare. Qui si deve collocare il nostro rovello: cosa c’è di nuovo nell’alienazione di questi tempi? Una domanda che ne porta con sé una diversa: come collocare la tecnologia al servizio dell’uomo, come renderla strumento di liberazione e non invece il suo opposto, per una schiavitù tanto più opprimente quanto più la proprietà della tecnologia è appannaggio del big business privato, sottratta a qualunque ipotesi di controllo e di programmazione pubblica e collettiva? E ancora, interrogando il lavoro da una prospettiva diversa, ancora più intima: cosa accade quando la sofferenza e la paura di essere travolti dall’alienazione si accompagnano agli effetti di un’automazione che aumenta a dismisura il rischio di espellere dal mercato del lavoro chi rimane indietro? L’alienazione, la precarietà, l’orizzonte traumatico di una disoccupazione endemica come effetto del mismatch tra domanda e offerta nel mercato del lavoro indotto dai processi di automazione. Il grumo di questioni su cui interrogarsi è densissimo. E ancora: la povertà del lavoro, la povertà nel lavoro. In Italia viviamo da trent’anni con salari fermi al palo. L’OCSE dice addirittura che in trent’anni i salari italiani sono diminuiti del 3% e che i nati dopo il 1986 hanno oggi il reddito pro-capite più basso della storia italiana. Non si tratta, soltanto, di teoretica. Il lavoro impatta sulla vita, trasforma la vita, può travolgerla.
E allora è forte la tentazione di fare l’elenco della spesa delle parole d’ordine di cui avremmo bisogno, da contrapporre a un ordine delle parole che ha fatto strame, in questi anni, dei diritti. Salario minimo, riforma della contrattazione, riduzione dell’orario di lavoro. Un nuovo Statuto del lavoro che affronti di petto il problema della sicurezza sui luoghi di lavoro, per invertire il trend sugli infortuni e le morti bianche. Parità di salario a parità di mansione e, ancora, parità di salario a parità di genere (una vera e propria chimera, figlia di una società fondata sulla discriminazione e sulla violenza nei confronti delle donne). A monte, una politica industriale (non solo nazionale, ma innanzitutto europea) e una politica di programmazione e di pianificazione pubblica degne di questo nome. Persino, un’idea di partecipazione economica e dunque di democrazia diversa e più avanzata, nella quale i lavoratori giochino un ruolo trainante, definendo il «cosa», il «come» e il «per chi» produrre.
Ma non è, adesso, il mio compito. Questo è soltanto l’editoriale di una rivista di cultura critica. Che vuole togliere dall’ombra ciò che dovrebbe essere al centro del nostro palcoscenico, chiamando — a partire dai contributi che abbiamo raccolto in questo numero, sotto forma di articoli, di interviste e di poesie — la sinistra politica e sociale al suo compito. I partiti che sono eredi delle tradizioni nobili del movimento operaio e che troppo spesso si sono resi corresponsabili di questa gigantesca redistribuzione di ricchezza e di potere dal basso verso l’alto. I sindacati, che in questi anni hanno sopperito a un vuoto, ma le cui spalle non possono (e non debbono) sopportare da sole il peso di una controffensiva egemonica così complessa. Occorrono altri pensieri, altri soggetti culturali, artistici, associativi, altre sensibilità. In grado di riprendere una mobilitazione e un conflitto in grado di coniugare l’orizzonte di un lavoro liberato (e dunque di una società post-capitalistica) con correttivi e riforme immediate, piccoli passi che restituiscano ossigeno e speranza. Si tratta di ripartire daccapo. Servirebbe una cornice di senso organizzata: un grande soggetto, reticolare, federativo e generativo, per corroborare pensiero e conflitto.
Chissà che il fiore rinasca. Nell’attesa, seminiamo.