
26 Apr Essere Baobab, essere Francesco
Accogliere non è un gesto di carità, è una scelta politica. In un’epoca di muri, difendere chi pratica l’inclusione è un atto di resistenza culturale e morale.
Qualche giorno fa, mentre ancora risuonava nelle strade di Roma l’eco del saluto di Papa Francesco, ho letto il post di Baobab Experience. L’ho sentito come si sentono certi colpi allo stomaco: “sarà ancora più difficile senza te dalla nostra parte”, hanno scritto. È una frase semplice, come semplice era il linguaggio di Francesco, e qui vi rimando a chi ne sa più di me.
Avrei dovuto scriverlo mesi fa, questo articolo, quando apriva il Welcome Center e la mediocrità si faceva largo sui social, mischiando razzismo d’accatto, benaltrismo e nazionalismo da operetta. Roma allora ha alzato la mano, ha scelto di esserci, come città e come Amministrazione è riuscita a dare un segnale senza mezze misure. Nonostante tutto.
Nell’ultimo decennio, la politica dei tiepidi ha smesso di abitare le periferie del bisogno, lasciando molto spesso soli i sindaci, le associazioni e chi sul territorio resiste all’imbarbarimento. Con questo vuoto, si è scavato un profondo solco senza presidio; la paura, a volte legittima, ha trovato casa; la pancia ha vinto sulla ragionevolezza, e i reazionari hanno edificato i loro mostri di prossimità. Semplicistica come analisi? Può darsi, ma tant’è. Sono stata al fianco di amministratori locali per 15 anni; posso permettermi di parlare così. Non si lasciano gestire gli arrivi nei Comuni ai Prefetti senza coinvolgere minimamente le autorità locali e le associazioni dei territori. Un deficit di strategia pagato amaramente dalla stessa politica che oggi corre in Piazza San Pietro per accaparrarsi la minor distanza da Francesco.
In questo vuoto si è insinuata, dentro la vera informazione, una narrazione molto più piccola ma molto più veloce e che ha saputo affinare la tecnica del terrore mediatico. Ha dipinto chi arriva come una minaccia, mai come una storia. Ha cancellato il volto umano dell’accoglienza, l’ha ridotto a slogan, a statistica, a sospetto. Si è fatta strumento a favore di un agito i cui protagonisti, tra un Ave Maria, un rosario tra le mani e un citofono, sono arrivati al Ministero dell’Interno.
Eppure esistono ancora luoghi come Baobab, che ogni giorno scelgono di farsi casa, di essere mani tese e non muri. Io lo trovo qui, il senso vero dell’accoglienza: non come gesto caritatevole, ma come affermazione di futuro. E mentre c’è chi “deporta” e chi sigla accordi in Albania, spostando nei Cpr offshore esseri umani senza vere garanzie di diritto, anche la tanto promossa “macchina dei rimpatri” si inceppa: costosa, inefficace, incapace di distinguere tra chi fugge dalla guerra, chi cerca solo pane e dignità, chi mette al sicuro i propri figli da chi necessita di percorsi di giustizia e pena. Rimpatriare non è uno slogan, è un processo giuridico complesso, che richiede valutazione e tutela dei diritti fondamentali. Rimpatriare non è sinonimo di sicurezza.
Siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Non a sentirci tutti più vicini e simili a Francesco. I facili entusiasmi di questi giorni li vedo già sfiorire nel giro di poche ore. Non basta più l’elitarismo da divano, non bastano più le indignazioni intermittenti. “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca“, (Ap 3, 14-20).
Potrebbe essere utile agli intellettuali del patriarcato, quelli che tengono Elly come santino per fingersi progressisti di frontiera, una lettura interessante: “La trappola identitaria” di Yasha Mounk. Un saggio che può riavvicinarli a temi come sicurezza, difesa, pace e così via senza scimmiottare chi ha idee più chiare e non sempre giuste. Senza Francesco che diceva “qualcosa di sinistra” sarà difficile anche per loro.
Essere come Francesco non per imitazione, ma per fedeltà a un’idea più grande di noi stessi. A me questo Papa piaceva perché non era sempre coerente; perché molto spesso viveva nella contraddizione. Era in modo affascinante umano, illuminato, ma umano. Irascibile, e teneramente autentico. In bilico tra l’essere un conservatore ed un vero progressista. Mi piace quel Papa che esce fuori dalle parole di suor Geneviève.
Essere come Francesco, perché chi oggi arriva sulle nostre coste, porta dentro di sé, senza saperlo, anche una parte del nostro domani. Questa banalità, le nuove generazioni, la sanno già: sono aperte, si sentono figli e figlie del mondo. È contro di loro, contro il loro istinto a costruire ponti anziché muri, che stiamo combattendo senza nemmeno accorgercene.
Ma oggi, mentre guardo la piazza che saluta Francesco, penso ad un nostro amico, un amico di Malacoda, Aly Baba Faye: “il problema non è l’umanità che si muove, il problema vero risiede in coloro che vogliono gestire l’umanità che si muove. C’è chi pensa alla chiusura, chi all’apertura; questa è una visione prettamente manichea che polarizza il confronto. La difficoltà sta, oggi, nel non saper trovare una via di mezzo ma sul piano politico. La libertà di movimento è un diritto, pertanto, basta parlare di migrazioni”.
È con le parole di Aly Baba che penso ad Andrea di Baobab, al suo modo secco e senza sconti di parlare e agire, alle ragazze e ai ragazzi di questa e di tante altre associazioni. Non so cosa si possa fare, e come farlo: ma facciamo in modo che, senza Francesco, quel post su Instagram non diventi realtà.
Sostenere Baobab, raccontare l’accoglienza senza retorica, significa difendere chi vogliamo essere.
Non c’è neutralità di fronte alla paura. O si diventa muro, o si diventa mano tesa.
Essere Baobab, essere Aly Babà, essere Francesco, essere piccoli, è tutto qui: una questione di scelta.