12 Apr “LAVORO” di Giuseppe Lupo
1. Nonostante gli scenari modificati e le numerose transizioni fra il periodo in cui si è affermata la modernità, negli anni Cinquanta/Sessanta, e quello successivo, quando è avvenuto il passaggio verso la dimensione di lavoro in epoca postmoderna, rimane ancora oggi viva nell’opinione pubblica la convinzione che i luoghi della produzione – gli ambienti dove conta la destrezza delle mani e si realizza il dialogo tra abilità umane e tecnologia – sono ancora inaccessibili e, dunque, quasi del tutto sconosciuti. È vero che ci sono aziende visitate da scolaresche o da gruppi organizzati. Ed è anche vero che ormai sempre più di frequente, accanto ai tradizionali capannoni delle officine, sorgono spazi espositivi, show room, strutture museali che raccontano la storia di quell’azienda e contribuiscono alla costruzione del brand. Ma sono eccezioni rispetto alla norma che invece, il più delle volte, sembra essere rimasta ferma al tempo in cui Ottiero Ottieri, uno degli intellettuali più organici all’universo dell’industria, rifletteva su come fossero considerate impenetrabili e lo dichiarava in un frammento del suo Taccuino industriale che porta la data del novembre 1954: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo?» Il frammento sarebbe finito in una pagina del diario intitolato La linea gotica, pubblicato nel 1963, l’anno cruciale del boom economico, ed è sufficiente a fotografare un’epoca in cui l’officina rappresentava certo la realtà più accredita all’affermarsi della modernità in tutto il Paese, però destinata solo agli addetti ai lavori, operai o impiegati che fossero. Come si fa a narrare un’impresa se non la si conosce? Non a caso l’idea di una fortezza inespugnabile sarebbe rimasta a lungo negli occhi di chi avrebbe tentato il racconto (registi, scrittori, pittori, musicisti), perché l’impresa, per quanto abbia cercato di evolversi nell’immagine che offriva di sé, si è dimostrata incapace di scrollarsi di dosso quell’aria di totem artificiale, quel senso di sopraggiunto, quel suo essere non previsto e tuttavia inevitabile, che le sue strutture manifestavano in chiunque si avvicinasse ai cancelli. La sua innaturale presenza – innaturale perché addizionata in maniera disarmonica a un paesaggio che non la prevedeva inizialmente – ha continuato a frapporsi all’antropologia di una certa quotidianità come una lente opaca, un discrimine tra un prima, forse ancora troppo ingenuo, e un dopo, dove l’ingenuità si è infranta eppure ha continuato a tenere in uno stato di lontana diffidenza le casalinghe, in ragazzi in età scolare, le famiglie immigrate dalla campagna, tutta gente che, nonostante vivesse a due passi da una qualsiasi fabbrica, non conosceva nulla più del muro di cinta o delle ciminiere che svettavano in altezza o del suono abitudinario della sirena. Perciò essa ha continuato a rappresentare un totem artificiale, un’intrusa all’interno di un contesto urbano, di cui costituiva un paragrafo tanto appartato da generare sospetto. Negli anni prima, durante e dopo il miracolo, infatti, non era facile metterci piede, sia pure per soddisfare il semplice desiderio di capire come funzionasse l’organizzazione delle mansioni umane accanto alle macchine e cosa si producesse. Sicché le parole di Ottieri colgono una verità latente e fissano il paradigma del luogo impossibile da narrare. «I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragione di tempo, di opportunità» – continua –. «L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più». Il ragionamento è purtroppo indigesto, sia che lo si intenda nel significato di un auspicio o di biasimo. Certo si tratta di un teorema intellettualistico che poi sarebbe stato smentito da una lunga fila di libri, film, dipinti, ambientati dentro o intorno alla fabbrica, però si commetterebbe ugualmente un errore di prospettiva pensando che sia un giudizio sommario o privo di credibilità. Al contrario, le considerazioni di Ottieri sono il portato di un convincimento diffuso, tant’è che in quegli stessi anni una rivista autorevole come «Civiltà delle Macchine» (1953) si era posto lo stesso problema e aveva cercato di risolverlo inviando poeti e pittori a conoscere le catene di montaggio, le mense operaie, i magazzini delle merci, le aree di stoccaggio. Il discorso non sarebbe finito con quell’esperimento tant’è che anche nella nuova «Civiltà delle Macchine», rinata poco più di un anno fa sotto la direzione di Marco Ferrante e pubblicata dalla Fondazione Leonardo, questo dialogo con la sapienza del fare continua a rimanere vivo. Per quanto le periferie siano state luoghi di contaminazione tra le sacche di una premodernità e il moderno che si manifestava con l’irruenza della tecnologia, contaminazione come fusione per non dire addirittura di promiscuità – pensiamo a cosa significasse vivere nella periferia di una città industrializzata del Nord Italia o nell’hinterland tra anni Sessanta e Ottanta – delle officine, oggi, continuiamo a sapere poco. E ne constatiamo gli effetti sia perché l’epoca della dismissione ha lasciato viva la nostalgia di qualche capannone rimasto in piedi, insignito dell’etichetta di archeologia industriale, sia perché la nozione di industria si è modificata proprio per effetto della globalizzazione ed è davvero complicato rintracciare quel che sopravvive del tempo di ieri. Sono questi i presupposti da cui far cominciare una rubrica intitolata Officina Italia, pensata alla luce delle affermazioni di Ottieri: per comprendere l’anima produttiva di questa nazione è necessario visitare le tante realtà dove la regola del fare nasce dall’incontro fra altissima tecnologia e sapienza artigiana, il connubio migliore che possa esistere fra qualità e produzione in vasta scala, l’unico, vero settore in cui il Paese, a prescindere se ci si trova in aree geografiche del Nord o del Sud, esprime la sua più convincente vocazione produttiva. In effetti, osservando il panorama delle nazioni che ci stanno intorno, si ha la netta percezione di una attitudine manifatturiera che attribuisce un preciso orientamento al tipo di capitalismo declinato nella maniera tutta italiana. Esiste una tradizione, insomma, che appartiene specificatamente a noi – è opportuno ribadirlo ancora una volta – e questa tradizione è più facile riscontrarla là dove è quasi invisibile la linea che separa il ruolo svolto dalla presenza tecnologica e la sapienza che resiste nel richiamo millenario alla capacità artigiana e che trova nel concetto di officina il suo ambito per manifestarsi. Bisogna certo intendersi su cosa significhi officina. Qualsiasi luogo dove creatività e materia si mescolano può esserlo. Teoricamente lo è anche un centro di ricerca universitario o un periodico culturale (nel 1955, a Bologna, Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi fondarono la rivista di poesia «Officina») perché al di là della consuetudine di produrre oggetti, al di là dell’inclinazione a costruire, c’è qualcosa in più che anima le imprese, un orgoglio, un primato che domina negli opifici manifatturieri: il laboratorio di pipe Radice, in riva al lago di Como, per esempio, o la casa sartoriale Kiton, nei dintorni di Napoli, o la fabbrica di chiavi Keyline, a Vittorio Veneto. E se la nozione di officina trionfa a vista d’occhio visitando gli capannoni di Vicenza, dove si riparano i Frecciarossa delle Ferrovie dello Stato, o ascoltando i colpi di maglio nelle Fucine Umbre di Terni, in Umbria, non si può dimenticare che lo stesso concetto andrebbe applicato anche quando si varcano le tettoie della casa Amarelli, una tra le più antiche ditte al mondo che ricava liquirizia al centro di una piantagione a Rossano Calabro, in riva al mar Jonio, o quando si seguono le fasi di lavorazione che ad Alba, nelle Langhe, portano dalle nocciole ai barattoli della Nutella Ferrero, tipico di un made in Italy che tutti imitano ma che nessuno riesce e raggiungere. Poco conta se i procedimenti utilizzati per cesellare il pennino delle penne stilografiche Aurora, a due passi dall’Abbadia di Stura, nei pressi di Torino, abbisognano di quella specifica perizia manuale che è richiesta anche in chi disegna la sagoma dei motoscafi Riva, in riva al lago d’Iseo, o in chi realizza accessori per uso domestico, come la Alessi, nelle valli del Verbano. Per quanto cambi il tipo di prodotto, il minimo comune denominatore del nostro made in Italy resta l’attitudine laboratoriale contenuta nell’esercizio di dare vita a oggetti e ciò rappresenta il lascito più autentico del rapporto con le risorse tecnologiche, il mai sopito duello tra individui e macchine. Pur nella loro eterogeneità, l’insieme di queste visite nella nozione di officina concorre a sottolineare che non tutto viene demandato all’automazione, che qualcosa sopravvive di un’antica preistoria artigianale e che sotto la patina di una liturgia produttiva altamente specializzata, di cui i gesti robotizzati sono il risultato di una perfezione consolidata, soggiace il rischio di errore, il baratro del fallimento, a ricordare che occorre guardare ai risultati come tappe intermedie di una civiltà della creazione.
2. Sarà anche un argomento che affonda nel passato più remoto della storia umana, ma di sicuro quello del lavoro è un tema che il secolo scorso ha affrontato in maniera discontinua rispetto a tutto ciò che stava prima, perché la fabbrica declinata secondo l’idea novecentesca, annunciandosi come la vera soglia del moderno, ha modificato per sempre ogni significato. Non si tratta semplicemente di verificare quanto risulti ancora pertinente la lettura biblica che aveva attribuito a questo vocabolo il senso di una punizione o di una liberazione, ma di constatare il cambio di paradigma imposto dalla presenza delle macchine a cui ciascun individuo, proprio perché al centro delle trasformazioni tecnologiche, non ha potuto e forse voluto sottrarsi. È chiaro che la catena di montaggio, per il tipo di organizzazione conforme alla logica fordista, per il suo essere causa ed effetto di un rinnovato rapporto fra la scansione del tempo e il principio dell’ordine, è stata una specie di frontiera e mai come ora, usciti abbondantemente fuori dal Novecento, ci rendiamo conto che, quando pronunciamo il vocabolo lavoro, non abbiamo più in mente lo stesso orizzonte di senso, lo stesso insieme di esperienze e azioni che appartenevano alle generazioni precedenti e a quella ancora più lontane nel tempo. È difficile, forse impossibile dopo la pandemia, recuperare la prospettiva della stabilità e della durata, l’aspirazione al posto fisso come principio inalienabile di solidità sociale e familiare. Il problema è all’ordine del giorno da quando è cominciato il terzo millennio. Non a caso, nei romanzi usciti in questo lasso di anni – da Claudio Lolli a Vitaliano Trevisan, da Francesco Targhetta a Sebastiano Nata – gli autori adottano come nuclei narrativi storie di disoccupazione e di precariato, spesso vissute in prima persona o attinte alla trama della cronaca quotidiana. Tale scelta, se per un verso apre la strada alla nuova stagione dell’impegno – una fase non meno agguerrita rispetto all’engagement che era stata di moda nel secondo dopoguerra, anche se con tutt’altre finalità ideologiche – per l’altro verso conferma il valore squisitamente documentario delle narrazioni contemporanee, a cui non manca, come obiettivo ultimo, il tentativo di fare dell’esercizio letterario un atto di denuncia. La narrativa dei decenni più vicini a noi, arrivata spesso sul grande schermo – come per esempio Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia che ha ispirato il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti (2008) – si fa portavoce delle infinite sacche di debolezza, offre il proprio scudo ponendosi in un atteggiamento oppositivo, sceglie la strada del gridare contro anziché quella del dialogare con. Qui ora siamo sul limite di un ragionamento che non presuppone soltanto la validità di determinati spunti interpretativi che in passato, nel “secolo breve”, avevano condotto a leggere il lavoro come punizione e come redenzione. Piuttosto introduce la riflessione sul ruolo del letterato di fronte ai cambiamenti epocali che hanno attraversato prima la stagione dell’industrializzazione, poi quella della post-industria, andando ben oltre la fine del moderno come fine della Storia. Seguendo un puro dato statistico, è facile verificare che il più dominante dei motivi è stata la lettura infernale della giornata in fabbrica. Sicché una linea continua lega il futurista Paolo Buzzi, quando metteva sulla bocca della donna-operaia l’espressione «inferno della mia fornace» (Il canto della filandiera, 1913), a Vittorio Sereni, il quale, in pieno boom economico, rinveniva i caratteri da «asettici inferni» nella sua Visita in fabbrica (1961). Ed è, questa lettura, una vera e propria eredità novecentesca, a cui purtroppo è impossibile sottrarsi, specie quando si raccontano esperienze ai limiti dell’umano, come i siti industriali dell’Ilva di Taranto e di Piombino, entrambi al centro di due reportage letterari, intitolati appunto Nell’inferno, scritti recentemente da Cosimo Argentina e Orso Tosco. Novecento e post-Novecento trovano qui l’anello di collegamento, ma ciò costituisce una sorta di implicita sconfitta, suscitata dall’incapacità di svoltare pagina, di elaborare interpretazioni suggerite da piani di lettura alternativi. Di sicuro essi non sono mancati nei cento anni che ci hanno preceduto e sono stati anche di spessore originale. Il pensiero corre presto ad Adriano Olivetti che nell’aprile del 1955 inaugurava lo stabilimento di Pozzuoli, vicino a Napoli, sforzandosi di sottolineare che i criteri con cui era stata costruita la fabbrica avrebbero consentito all’operaio di trovare «nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». Il riscatto della sofferenza: potrebbe essere questa la sintesi del discorso e anche dell’intero progetto di Olivetti. Il quale, da par suo, non dimenticava il grido di sofferenza che saliva dalle pagine della Condition ouvière (1951), il libro con cui Simone Weil dichiarava la disumanità del fordismo e, di fatto, sconfessava il teorema enunciato quarant’anni prima da Frederick W. Taylor, autore di un testo come L’organizzazione scientifica del lavoro (1911), che avrebbe fatto scuola nel Novecento. Olivetti aveva compreso che la via del successo imprenditoriale passava attraverso il miglioramento della condizione operaia, forse sarebbe più giusto dire la sua definitiva riabilitazione dallo stato di subalternità a cui soggiaceva sia quando indossava gli abiti del contadino, sia quando, dismettendoli, si trasferiva a vivere accanto alle fabbriche. Ma la visione di Olivetti intendeva affermare anche un altro principio, ben più radicale: realizzare un umanesimo industriale era un obiettivo alla portata del Novecento, necessario per ristabilire in chiave morale il patto tra il mito della produzione e il valore della persona, quel camminare in bilico tra interessi economici e riscatto di una comunità. La sfida che Olivetti lanciava al capitalismo italiano (e probabilmente all’intero Occidente keynesiano) toccava il tema della responsabilità sociale a cui l’industria era chiamata a rispondere, contribuendo con tutte le forze a edificare una società in cui la risultanza fra bene comune, profitto e tecnologia non fosse solo un’utopia tanto vagheggiata quanto inattualizzabile. Tutti sappiamo bene qual è stato l’epilogo del sogno di Ivrea, ma ciò non sottrae nulla alla concretezza di quel disegno imprenditoriale, anzi ne fa un modello di civiltà industriale che costituisce la proposta di una vera e propria “terza via” al capitalismo, un’idea di modernità riscritta con un altro linguaggio: la persona non l’individuo, i bisogni della comunità non la macroarea che guarda anonimamente all’operaio-massa. Non sarà un caso che proprio lo stabilimento di Pozzuoli, posto al centro di un romanzo-documento di Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto (1959), sia stato interpretato a mo’ di paradiso terrestre dalla moltitudine di disoccupati che sperava di essere assunta. «Noi siamo nell’inferno» dirà a un certo punto uno dei personaggi che tenteranno inutilmente di entrare nel giardino di eden della nuova fabbrica. Ci troviamo di fronte al capovolgimento delle questioni novecentesche: per questa gente l’ingresso nella Olivetti ricopriva il valore positivo di un privilegio, un’elezione. Significava cioè uscire dalla condizione dei dannati e accedere al rango degli eletti. Torna qui a riaffiorare il sostrato etico di cui il discorso sul lavoro non può non tener conto. C’è una ragione per cui i disoccupati napoletani non potranno accedere alla fabbrica-giardino e si trova ancora una volta nelle sfumature lessicali: chiedono di faticare, non di lavorare. Non è esattamente la stessa cosa: il primo dei due predicati appartiene al linguaggio degli schiavi, l’altro contiene una sua dignità. Ce lo farà capire bene Primo Levi nella Chiave a stella (1978), quando mette in bocca al suo protagonista: «Per me, ogni lavoro che incomincio, è come fare l’amore». Se ne sono accorti in pochi, ma nelle conversazioni di Tino Faussone, il personaggio del libro, è transitato il Novecento migliore.
- Foto: Adolph von Menzel, La fonderia, 1872-1875. Olio su tela, 1,58 X 2,54 m. Berlino, Alte Nationalgalerie.