16 Apr Lavoro, il grande invisibile
di Michele Fianco
‘Scherzato’ dall’arroganza di un atteggiamento finanziario diffuso – dunque, non solamente dalla grande finanza, quella vera, silente, apodittica, no, ma anche dai suoi scherani di minima provincia, moltiplicatisi come cellule fuori controllo nelle sembianze di chi si vuol illustrare, così, smart, in luce, sul proscenio (dai giornalisti arrembanti ai gestori di wine bar) -, non trova più rifugio – il lavoro – nemmeno in:
politica (ricorre il trentennale dalla scomparsa, andrà festeggiato);
Stato (organismo oramai anaerobico e nemmeno di così acuta visione);
sindacato (ridotto a una mera società di sondaggi e statistiche, atto alla conta, di volta in volta, degli iscritti).
E nemmeno troppo si potrà sperare un giorno, fra 500mila anni, nel riscatto di una verità che alcune forme di intelligenza improvvisamente riattivatesi, o di nuova formazione, vorranno cogliere nella causa tonante di tal disastro, ovvero, il meteorite chiamato procedura che investì quest’ugola di terra nella bocca spalancata del Mediterraneo al nascere del XXI secolo. Troppo facile. Troppo facile, ad esempio, la fotografia di una scuola al 50%, allagata sempre più pervasivamente da acronimi, griglie di valutazione, libri colorati delle medie, con la didattica, in piedi, nel solo angolo rimasto asciutto dei docenti (idealisti, li chiamano); o quella delle consulenze per lo Stato al 66%, con progettazioni e rendicontazioni affettate, celebrative, in prima persona, più decisive del restante terzo di attività.
“Il lavoro si lavora, non si parla!” Questo allarme – un tantino datato in purezza e un tantino Tuco in Il buono, il brutto, il cattivo -, è messo lì, giusto per individuare il passaggio logico dal centro al fuori asse, dalla dignità di chi vuole o è chiamato a prestar opera e intelletto in un ambito ben codificato, alla dispersione cinica, perniciosa e perfino controintuitiva del contesto. E laggiù – come si diceva – tra mezzo milione di anni, potranno anche accontentarsi della procedura, del meteorite, di questa spiegazione ‘tutta’; ma è qui che a una possibile, articolata risposta alla domanda “cosa stia succedendo e a chi convenga”, si arriverà non prima di aver posto certosinamente su un piano orizzontale le infinite curvature di questa sfera.
Il lavoro è reso invisibile, è la sua inflazione che lo ha fatto tale. Oramai sublimato in ‘motto di spirito’ che viaggia di stampa in stampa, di voce in voce, di esecutivo in esecutivo (l’ennesima ‘questione meridionale’ insoluta o in via di eterna insoluzione), il lavoro non si sa più cosa sia, né a cosa serva. E lo si può affermare – immodestamente – da qui, da chi le forme contrattuali le ha indossate pressoché tutte (la generazione è quella, del resto: giovane al punto di svolta, anziana quando riporta).
Meglio: reso invisibile dalla sua inflazione e dallo strabismo imposto. Basti vedere concorsi per esperti di comunicazione presso il Mibac di qualche anno fa (ne accennavo in parte nello scorso articolo) dove non una domanda delle ottanta era inerente alla comunicazione; e basti guardare concorsi ordinari per la scuola (2022), dove si è giocato praticamente a un ciapa no imbarazzante; così, mentre pubblicamente si affermava – il ministro – di voler integrare, come mai nella storia, nuovo e necessario personale docente, l’escamotage della procedura concorsuale diluita in un tempo immisurabile e in crocette fantastiche, portava a un esile 9-10% dei promossi (una paletta di sabbia per sopire l’eruzione dal cratere, praticamente).
Ancor di più: invisibile per la sua inflazione, per lo strabismo e a causa di un pachidermico passo che va a travolgere patti sociali, minime regole civili ecc. E così, ad esempio, quel che dovrebbe essere l’architrave di un contesto – il lavoro x tempo – ha dato, e sta dando, i suoi buoni frutti. Al contrario. Motore immobile di questa congerie è spesso lo Stato, come ente acquirente, in grado di guidare verso il fallimento anche società con milioni di crediti, figuriamoci ‘brevi’ professionisti con pochissime migliaia. Basta un ritardo nei pagamenti, messo lì, ad hoc.
E seguitando, altra pendice, è quella dei lavori, plurale, che rende immediatamente evidente come parlare di lavoro, singolare, sia una mera mistificazione propagandistica. Pendice evidentemente troppo impervia da praticare, vista la fissità dei contratti, spesso accorpati in uno antico, un CCNL del tempo che fu, dove potevano darsi appuntamento, almeno fino a qualche tempo fa, metalmeccanici e softwaristi. Qui, è palmare che il giro del millennio (e del mondo, almeno quello), non è stato notato, causa un riflesso differito dai quindici anni in su che il Bel Paese ha di congenito.
Si festeggia il trentennale di questa scomparsa, di questa invisibilità – ci ricordano -, e allora lo vorremmo celebrare con una frase:
“La verità, purtroppo non bella da dire, è che messaggi di speranza – nel senso della trasformazione e del miglioramento del sistema – possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di “generazione perduta”, purtroppo”.
Fotografia molto nitida, condivisibile, se fosse stato un sociologo a scattarla. Non un granché, nemmeno a livello aziendale, se il recupero o non recupero di una ‘risorsa’ chiarifica, come in questo caso, una prospettiva dall’alto, indifferente, aggressiva. Del resto, se in un ipotetico dizionario aggiornatissimo, alla voce premier leggiamo “operatore evoluto Excel, quando non espresso da partiti politici”…
Ma al di là del confine, non vorremmo non intravedere, tuttavia, un esempio virtuoso, esattamente quello di chi “pensava la fabbrica per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica”. Peccato sventoli – tale esempio – come simbolo, come utopia, in un senso assolutamente controvento.
Ecco, quando avremo compreso che il primo non è pragmatismo ma idealismo, e il secondo non è idealismo ma pragmatismo, il primo antropologia borghese ottocentesca, il secondo semplice logica economica, forse potrà riapparire, in qualche modo, in qualche forma, il grande invisibile.
Sì, al tempo: “ma a chi conviene?”
È un fronte, un fronte ove si disputa una nuova guerra, alle possibilità e al senso.
Ma se qualsiasi cronista dal monte attiguo assistesse, potrebbe scrivere di un esercito che non c’è e di un’iperbole Europa, che è solo un pettegolezzo, un paese, solo più grande; predisposti, entrambi, a creare ritardi e quindi debiti. Infine, un lenzuolo Excel, enorme come un cielo, che cala e incassa, cella per cella, l’accelerazione di suddetti debiti. E noi, luogo di potere – imposto o subito – si avalla questo gioco di (alta) società, col sorriso inutile di chi questo gioco è convinto di guidarlo. Da almeno trent’anni, appunto.
- Foto di Timon Studler su Unsplash