20 Apr È tutto un lavorare
di Marcello Carlino
Che la scrittura letteraria possa e debba intendersi come lavoro, questo è assioma che data da secoli, e che è tanto palesemente a prova di smentite, per altro, che appare finanche superfluo tornare a dirne. È lavoro perché la costruzione di un testo richiede strumenti, competenze, applicazioni, tempi di produzione che è improprio – è vecchia aporia romantico-idealistica – ricondurre alla specie del tempo libero o di una immediatezza folgorante. È lavoro perché, da che mondo è mondo, l’autore si misura con mecenati, con committenti, con conferenti incarico, con apparati d’impresa e, a far data dal secolo diciannovesimo, con un mercato della cui cogenza lo scrittore libero professionista non può non essere avvertito, quale che sia la posizione che sceglie di assumere e che ne segna la tendenza ideologico-letteraria.
È poi assodato, difficilmente confutabile: assodato che a mano a mano le leggi di mercato hanno finito per imperversare e condizionare pesantemente orientamenti di poetica e generi e tipologie di opera; assodato che per ciò stesso gli spazi di una sedicente libera professione si sono fatalmente ristretti, mentre si sono allargati, i soli comunque disponibili, quelli per un lavoro letterario strumentale, poco manca che da catena di montaggio; assodato che sono pressoché impraticabili i territori di una committenza collettiva, socializzata, tanto quelli – di fatto aleatori, selettivi, provvisti di prescrizioni operative a loro modo dirigistiche – della comunicazione internautica, quanto quelli di un’arte partecipata, quando fossero giunte a verifica nella concretezza del vivere comune l’utopia – rimasta utopia e infine cancellata dalla scena della rappresentazione sociale e culturale – di un principio del piacere regolatore in solido della società e delle relazioni ad essa interne e l’utopia – crollata ancor più rovinosamente e tragicamente – di una estensione del tempo libero per effetto del determinarsi del sistema di un lavoro diffuso, accorciato nei suoi tempi e liberato da un di più di reificazione e di alienazione.
L’insieme delle condizioni sopra rammentate è una ragione dell’incremento, nel testo e fuori del testo, volte ad un destinatario in potenza, delle zone intestabili ad una professione di poetica e ad una autoanalisi metaletteraria. E l’autoanalisi metaletteraria e la professione di poetica sono altrettante – non a caso più frequenti nella nostra contemporaneità – testimonianze del lavoro della scrittura ovvero della scrittura come lavoro.
Non resta, calcolato lo spazio che considero conveniente debba esserci riservato, che portare in materia un solo semplice indizio probante, che mi è già capitato di produrre e di discutere nel corso di altre istruttorie.
La nota carducciana dell’Intermezzo, che il poeta finge di circoscrivere come in interiore homine, tra sé e sé (ed è della specie di una affettuosa autorappresentazione il vocativo “vecchio mio cuor”, che riverbera l’immagine di antiche esperienze di umano ripiegamento e pure di un lungo praticantato di pensiero emotivo), chiama al proscenio il lavoro della computazione dei versi e ne dichiara il complesso procedimento di stesure in successione, tra il filare la trama della poesia, lo sfilarla e il rifare che assume valore preminente e suggerisce il compimento di un lavoro di lima. Il lavoro siffattamente svolto è teso a soddisfare l’ozio (risaputa traduzione di otium che è bello “abitare” affermandone la libertà seducente), ma contestualmente a procacciarsi il da vivere, a conseguire la gloria: è un lavoro, il lavoro della scrittura come lo intende Carducci, che è tutto nel solco della tradizione, ovvero del sistema di produzione letteraria dell’epoca sua. Così si può ottenere la gloria (che è il fine a cui tendere), che è ben remunerativa a livello sociale e che monetizza profittevolmente l’ozio. Il lavoro del quale ci riferisce l’Intermezzo carducciano attiene alla prassi della scrittura e implica una esternalizzazione del lavoro della scrittura in funzione delle dinamiche economico-sociali in atto in quel giro di anni e riversate, nei modi specificamente determinati, nello stesso apparato di produzione, con l’ideologia connessa, della letteratura. Non v’è dubbio che lavori come è dovuto da un mandatario al committente, che è fatto della stessa materia della convenzione, del senso comune dominante, del potere politico: Carducci “lavoratore” per sé ha così riassunto: “Questa è, vecchio mio cuor, la vecchia storia. / Far, disfare, rifare / Per l’ozio, per la fame o per la gloria / È tutto un lavorare”.
In una lettera a Sibilla Aleramo, che non siamo stati in pochi a ritenere essenziale per tracciare alcune linee della poetica dei Canti orfici, Campana cita la nota di Carducci, che si è giudicato essere tra i poeti della sua formazione in virtù del “cafonismo” (del bozzettismo) del quale è dato cenno in altre digressioni dei Taccuini; epperò la citazione, per un difetto di memoria o per volontaria correzione, è in buona sostanza invertita di segno. Il “rifare”, da Carducci collocato in una posizione dominante, al modo della sintesi nella dialettica del fare e disfare, è cassato, abolito; e il lavoro della scrittura, tra assunto brachilogico di poetica e chiosa metapoetica, rimane in sintonia con il rumore del mare (il suo inesausto parlottio, il movimento incessante di onde che avanzano e rifluiscono, il suo eterno ritorno): perennemente in fieri, quel lavoro, infinitamente non finito, votato senza posa a sperimentare la sua crisi. Il lavoro della scrittura di Campana non è, non può essere per la gloria o per la fame; e non insiste sui tempi e sugli spazi pacificati dell’otium. È un lavoro fuori dalla tradizione, dalle ideologie letterarie egemoni in quel secondo decennio del Novecento. Nondimeno, starato a fronte delle misure dell’apparato di produzione della letteratura, è un lavoro senza mercato che apre mondi. Campana ha così scritto a Sibilla Aleramo: “Fabbricare, fabbricare, fabbricare / Preferisco il rumore del mare / Che dice fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / Ecco quello che so fare”.
- foto: Opera di Ennio Calabria