Lavoro, Lavori e Intelligenza Artificiale 

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Il lavoro umano ha vissuto, nella sua storia, enormi cambiamenti. Dai tempi dei raccoglitori-cacciatori, al lavoro degli schiavi in Grecia, a Roma per passare ai servi medioevali e giungere fino al lavoro salariato dell’otto-novecento. L’organizzazione sociale intorno alle forme del lavoro si è plasmata in forme istituzionali e in vere e proprie concezioni di vita, nell’idea stessa del sé di intere generazioni.

Le evoluzioni da una forma ad un’altra hanno segnato dei passaggi d’epoca e, talvolta, sono stati segnati da salti nelle capacità del fare umano che derivavano dalle tecnologie e dalle conoscenze che si erano accumulate nella società. Questo è sicuramente il caso del passaggio dal lavoro servile di matrice medioevale al lavoro salariato della società industriale.

Il passaggio è rappresentato da una mutazione profonda delle strumentazioni usabili per produrre. L’avvento della produzione industriale, infatti, fu generato dalla capacità tecnologica di mutare natura agli oggetti usabili per la produzione. L’industria, infatti, nasce quando lo “strumento” (il manufatto usato dalla coppia “mano-cervello”) si trasforma in “macchina” (un artefatto capace di inglobare pezzi di “lavoro umano” e usare la ripetizione di tale capacità per aumentare a dismisura la capacità produttiva). Ancora oggi non è chiaro il significato profondo di tale passaggio. Si confonde spesso l’idea dello strumento con la realtà dei sistemi macchinici. Troppi millenni si sono accumulati sulle spalle dell’umanità per modificare la visione che abbiamo delle stesse cose che creiamo per produrre il soddisfacimento dei nostri bisogni.

Dovremmo comprendere fino in fondo il significato del salto qualitativo di tale passaggio che poi è il passaggio che fa nascere le società industriali e che hanno nei rapporti sociali capitalistici la loro strutturazione. È qui, in questo angusto passaggio che si fonda l’antagonismo tra Capitale e Lavoro. Certo, ci sono le dimensioni sociali di tale antagonismo, il “riverbero umano” del processo di sfruttamento e di annichilimento del lavoro umano nella macchina. Ma l’antagonismo vero è tra l’obbligatorietà del Capitale di aumentare i processi di automazione della macchina produttiva (per garantirsi l’aumento della riproduzione del capitale impiegato nell’investimento) e la conseguente riduzione progressiva dell’apporto di lavoro vivo nel processo produttivo. Tale meccanismo di fondo fu mascherato, nei primi 15/20 decenni di società industriale, da un aumento spasmodico della produzione di merci, molte delle quali, prima, non esistevano e non avevano creato, quindi, il corrispettivo “bisogno” da soddisfare. E tale imperioso aumento della produzione di merci ha generato quel collasso sistemico degli equilibri naturali e un consumo di materie prime non rinnovabili senza precedenti. Ma il bisogno del capitale di aumentare progressivamente e senza sosta la quantità delle merci non si è fermata né si accenna a fermarsi. Anzi. Ogni sera, ai TG, ci istruiscono sul dramma della mancata crescita.

Non c’è dubbio che un salto in avanti gigantesco nella capacità produttiva si è concretizzato con l’avvento delle tecnologie digitali. Dagli anni ‘80, con l’introduzione delle prime “macchine a controllo numerico” (così venivano chiamati i primi rudimentali robot inseriti nelle linee produttive della produzione automobilistica), si è innescato un processo esponenziale di utilizzo di strumentazioni digitali di cui i computer rappresentano la forma più evidente. Pensare che solo 3 decenni fa, praticamente, non esistevano computer negli uffici, sembra un racconto di fantascienza.

Le società contemporanee hanno portato tale capacità a processi di automazione che hanno fatto parlare, negli anni, della possibilità di costruire quelle che sono state chiamate le “fabbriche buie”, luoghi di produzione che non avrebbero avuto più bisogno di un apporto di “lavoro vivo” per la creazione di merci.

Il precario equilibrio tra la capacità del sistema socioeconomico di produrre un progressivo aumento dei processi di automazione e la distribuzione sia del lavoro vivo rimanente sia di un livello adeguato di salari in grado di soddisfare l’offerta delle merci prodotte è stato il leitmotiv dell’intero ‘900. Ogni volta che si pensava fosse possibile ritrovare un equilibrio tra questi due fattori, attraverso la generazione della moneta necessaria al nuovo punto di incontro tra domanda e offerta, nuovi squilibri emergevano dirompenti. Il salto tecnologico legato all’introduzione delle tecnologie digitali, in atto da alcuni decenni, sta accelerando l’emersione di processi di disequilibrio, ogni volta in settori diversi ma in maniera progressiva. 

L’avvento delle Intelligenze Artificiali Generative dei modelli LLM rappresenta un nuovo e dirompente salto di qualità. Gli impatti si misurano sulle singole professioni, sulle scelte aziendali e sugli equilibri macroeconomici dei sistemi sociali a partire da quelli maggiormente industrializzati.

Non è un caso che, per la prima volta, anche i vertici delle aziende che sviluppano tali tecnologie invocano (più o meno in modo strumentale) “regole dall’alto”, che i vertici politici delle grandi nazioni si mobilitano per produrre “regolamentazioni preventive” e che le grandi religioni monoteiste del pianeta firmano impegni per le forme di sviluppo e di utilizzo di tecnologie.

Siamo, probabilmente, ad un punto di svolta della storia umana mai sperimentato.

Il rapporto tra il fare umano, la sua produzione, la redistribuzione sociale della ricchezza prodotta attraverso tali processi e le mutazioni a vari livelli che producono forme di automazione legate al linguaggio, sono giunte ad un livello capace di riscrivere l’intera forma delle nostre società. Ancora una volta, a nostro avviso, tale passaggio è generato dalla mutazione della capacità e della natura del lavoro.


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