Cos’è il lavoro oggi e cosa dovrebbe essere

Condividi:

Intervista di Irene Bregola a Chiara Saraceno, Professoressa Emerita presso l’Università di Torino, Berlin Social Science Center Honorary Fellow, Collegio San Carlo, sociologa e filosofa. È stata nominata Grand’ufficiale della Repubblica Italiana dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi e Corresponding Fellow della British Academy. Nel 2017 ha ricevuto il Premio Feronia-Città di Fiano.

Abbiamo deciso di dedicare un numero monografico della rivista Malacoda al concetto di lavoro. La nostra è una scelta culturale, politica, persino esistenziale. Crediamo nel lavoro, nel diritto al lavoro come forma di riscatto individuale e collettivo, di realizzazione personale e di compartecipazione alla costruzione di una società più giusta ed equa che contempli le differenti vocazioni dei singoli, la fragilità come parte costitutiva della natura umana, in una società che invece propone modelli muscolari, iper produttivi, irreali e dannosi, che espungono dalla quotidianità il tempo libero e la cura relazionale, considerati inoperose perversioni. Lavoro è un termine solenne, evocativo, ma da decenni soggetto ad un inesorabile logorio culturale e sociale, che condiziona, espandendola o contraendola, l’area semantica di riferimento. Nonostante il suo progressivo impoverimento, conserva tuttavia una straordinaria funzione ontologica nella definizione costitutiva dell’essenza umana. Ne parliamo con la Professoressa Chiara Saraceno (Professoressa Emerita presso l’Università di Torino, Berlin Social Science Center Honorary Fellow, Collegio San Carlo), sociologa e filosofa che di lavoro e politiche sociali si è occupata approfonditamente nel corso della propria lunga carriera di studiosa, sino a divenire Presidente della Commissione di indagine sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia, e a presiedere recentemente il Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza.Irene Bregola

Professoressa Saraceno, i suoi studi pionieristici sul lavoro di cura, gli istituti familiari, la povertà e le forme di sostegno hanno incrociato inevitabilmente i temi lavorativi, indicando intrecci inestricabili tra queste diverse dimensioni dell’umana esistenza. Vorremmo esordire dunque rivolgendoci a lei anzitutto con una duplice domanda definitoria. Che cosa è per lei il lavoro oggi e cosa dovrebbe essere?

Lavoro è ogni attività che produce o mantiene in funzione beni, che si tratti di beni materiali o immateriali, cose o persone e relazioni. Nelle società contemporanee spesso è considerato lavoro solo quello pagato, se non addirittura solo quello che esiste nell’economia formale. Ma è lavoro anche il lavoro non pagato (familiare, svolto in famiglia e per la famiglia). E non tutto il lavoro pagato sta nell’economia formale. Guardare l’insieme dei lavori aiuterebbe anche a vedere i nessi tra gli uni e gli altri nonché i meccanismi che allocano le persone prevalentemente a uno o un altro tipo di lavoro.

Assistiamo forse oggi ad una assurdità. Da decenni, e con sempre maggiore insistenza negli ultimi anni, una infinita letteratura economica e sociologica ha posto al centro del dibattito accademico e poi pubblico il concetto di «società del post lavoro». Prima rilevando una sostanziale modificazione strutturale, che ha portato dal fordismo al post-fordismo, e poi introducendo, spinta dall’automazione, dall’applicazione dell’intelligenza artificiale e del machine learning ai processi produttivi, il concetto della «fine del lavoro» (di cui, del resto, Rifkin parlava già a metà degli anni Novanta). Tuttavia – in questo consiste il paradosso – intere parti del mondo, di recente industrializzazione, vedono crescere esponenzialmente la dimensione quantitativa ed estrattiva del lavoro (in particolare dipendente o tradizionalmente operaio). Eppure apparentemente anche nelle società in cui il ruolo delle nuove tecnologie ha influenzato significativamente la dinamica occupazionale e i processi produttivi, il lavoro rimane centrale anche in termini identitari, di percezione di sé. Lei condivide questa considerazione?

Innanzitutto osservo che il dibattito sulla fine del lavoro ha riguardato esclusivamente il lavoro remunerato nell’economia formale. Benché il lavoro domestico sia stato cambiato anch’esso dalla tecnologia negli ultimi centocinquantanni, nessuno ne ha evocato la sparizione, così come del lavoro di manutenzione delle persone e delle relazioni che fa parte sia del lavoro familiare sia del lavoro dei servizi alla persona. Anche se oggi si parla di utilizzare i robot per l’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, molti lavori nei servizi continuano ad essere non solo necessari, ma anche labour (e relational) intensive. Anche nella logistica più automatizzata (si veda AMAZON), è necessario molto lavoro umano, anche se il rischio è che sia questo a doversi adattare alla macchina. Ed anche rispetto al lavoro nell’economia informale, gli sforzi sono orientati a farlo emergere come lavoro vero, dignitoso. Il problema che scorgo è che invece molte occupazioni nell’economia formale stanno assumendo le caratteristiche di quelli riferibili all’economia informale: precarietà, paghe basse, riduzione di diritti. È questa squalifica del lavoro che ne mina l’importanza per l’identità e la percezione di sé come soggetti capaci e dignitosi. Più che il rifiuto del lavoro, osservo molta fatica, sforzi, per ottenere una occupazione decente. Poi certo è vero che, soprattutto, ma non esclusivamente tra i giovani, vi è il desiderio di non investire tutta la propria identità e tempo nel lavoro remunerato, di avere una vita più multidimensionale senza doversi per questo ammazzare di fatica, come purtroppo succede a molte donne che, se desiderano conciliare famiglia e occupazione remunerata, spesso non hanno tempo per altro.

Restringendo il perimetro d’osservazione all’Europa e al nostro Paese, emergono tre questioni eclatanti, che vorremmo approfondire con lei. La prima si colloca all’interno del ragionamento svolto in precedenza: ovvero la disoccupazione come effetto di una mancata corrispondenza tra domanda e offerta nel mercato del lavoro indotta dai processi di automazione. La seconda è la precarietà come fattore ormai endemico e caratterizzante della nostra economia, che contempla un’infinità di tipologie contrattuali prive di tutele. La terza è la povertà del lavoro, i dati sui salari e la conseguente perdita di potere d’acquisto negli ultimi trent’anni, sono inquietanti. Come crede stiano intervenendo queste dinamiche nella ridefinizione delle soggettività individuali e collettive? A suo avviso i tempi potrebbero essere maturi per considerare ipotesi di redistribuzione e riduzione del tempo di lavoro, già avanzate in alcuni paesi europei?

Per quanto riguarda la prima domanda, distinguerei tra disoccupazione dovuta ad una diminuzione di domanda a causa dello sviluppo tecnologico e disoccupazione dovuta a mancata corrispondenza tra competenze o qualifiche e ciò che è richiesto dalla domanda di lavoro. Le due cose non sono perfettamente sovrapponibili e non è detto che la tecnologia produrrà una domanda sufficiente a compensare quella distrutta, anche se dal lato dell’offerta ci fossero le competenze necessarie. Aggiungo che la mancanza di competenze richieste dalla domanda di lavoro non sempre riguarda occupazioni fortemente coinvolte in processi di sviluppo tecnologico. Dipende piuttosto da una scarsa comunicazione tra il sistema produttivo e quello scolastico, anche già a livello di orientamento. O dal fatto che molti ragazzi/e, specie nei ceti meno privilegiati, abbandonano precocemente la scuola per scoraggiamento e mancanza di incentivazione, quindi non acquisiscono nessuna competenza spendibile sul mercato del lavoro. Aggiungo che molte occupazioni non sono appetibili semplicemente perché sottopagate ed esposte a sfruttamento.  È il caso spesso della ristorazione, del turismo, della logistica. E qui arrivo alla seconda questione: la precarietà, il part time involontario, ma anche le remunerazioni troppo basse e la mancanza di tutele. In certi settori la distinzione tra economia formale e informale è sempre più labile. Sono dunque le situazioni di lavoro povero, a livello individuale. 

A proposito di lavoro povero e di povertà, sembra essersi aperto nel paese un dibattito quasi esorcizzante sulla povertà, una condizione che spaventa, ghettizza, sempre più spesso associata alla colpa, come fosse l’ovvia risultante del disimpegno e dell’irresponsabilità dei singoli. La discussione a tratti stigmatizzante sul reddito di cittadinanza, misura di sostegno di recente abolita con orgogliosa brutalità, quasi fosse un provvedimento assistenzialista incoraggiante tensioni parassitarie, ha reso plasticamente questa contraddizione. E malgrado la realtà imponga di confrontarsi con una povertà che il lavoro non sana bensì determina, nonostante i dati indichino che una parte consistente della platea dei percettori non fosse nelle condizioni di lavorare, l’accanimento non si è arrestato. Lo stesso trattamento è stato riservato all’ipotesi di introduzione del salario minimo, come se individuare soglie di sfruttamento e povertà terrorizzasse, mentre l’indeterminatezza tranquillizzasse. Ma la povertà esiste ed è un fenomeno ormai strutturale, lo asserisce anche il recente rapporto di Caritas. Saremo costretti dunque a conviverci come si trattasse di un elemento fisiologico? Lei crede che tale percezione sia condizionata dalla narrazione giornalistica e politica dominante o che queste ultime insistano e sollecitino un pregiudizio diffuso ben più radicato, quasi ancestrale?

Che la povertà sia strutturale siamo in molti a dirlo da diversi anni, sulla base dell’osservazione dei dati con cui ISTAT lo documenta ogni anno. Non è solo la conseguenza della disoccupazione, anche se non avere nessuno che lavora in famiglia (senza essere in pensione) è certamente una causa di povertà. Ma oramai è un dato strutturale che la povertà, individuale e familiare, possa esserci anche se c’è un occupato. Secondo gli ultimi dati, si trova in povertà assoluta il 22,4% delle famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, ma anche il 14,7% delle famiglie con persona di riferimento operaio o assimilato. Non è solo un problema di bassi salari e/o di part time involontario. È anche un problema di squilibrio tra reddito disponibile e numero di persone che ne dipendono. È un problema che riguarda soprattutto le famiglie mono-percettore di reddito con più figli, specie se minori a carico. Il salario minimo è solo un pezzo, ancorché importante, della soluzione. Occorre anche contrastare il part time involontario e sostenere in modo sistematico l’occupazione femminile, inclusa quella delle madri, che invece troppo spesso, specie se a bassa qualifica e basso reddito e se vivono in contesti privi di servizi, sono costrette ad abbandonare il lavoro remunerato. La retorica del povero nullafacente fa finta di ignorare che non sempre il lavoro è sufficiente ad uscire dalla povertà, non sempre la domanda di lavoro locale è sufficiente e offre salari decenti, non sempre per le donne è possibile conciliare lavoro famigliare e lavoro per il mercato.

A tal proposito come si potrebbe inquadrare il fenomeno, già analizzato da diversi studiosi, delle cosiddette grandi dimissioni? Le nuove generazioni stanno acquisendo un diverso rapporto con il tempo, respingendo il ricatto di uno sfruttamento intollerabile, predisponendosi ad un futuro di profondo ridimensionamento degli stili di vita praticabili, ma al contempo rinunciando a quello che sin qui è sempre parso un tratto costitutivo dell’umana essenza?

Le grandi dimissioni, oltre ad essere un fenomeno tutto sommato circoscritto se non di élite (alla luce di chi invece cerca disperatamente di trovare un lavoro), non esprimono un rifiuto del lavoro e neppure della importanza del lavoro per l’identità personale. Piuttosto esprimono un rifiuto del suo carattere totalizzante, a spese di altre dimensioni, e in diversi casi anche di rapporti di lavoro sfruttatori, o che vincolano troppo la libertà personale. Non si esce dal mercato del lavoro, ma si cerca un lavoro più compatibile con le proprie esigenze di vita.

Veniamo infine a quella che è una questione dirompente, esistente nella società e dunque anche nel lavoro, quella femminile. Non alludiamo soltanto al gender pay gap ma a paradigmi e a modelli imperanti con differenti intensità ovunque, che fanno ricadere esclusivamente sulle donne il peso della conciliazione e della cura, laddove già si scontano evidenti disparità. Oltre ad una palese insufficienza della politica nel disporre interventi correttivi, sussiste evidentemente anche una ritrosia culturale nel nostro paese, legata a ruoli sociali predefiniti. Come ritiene sia possibile aggredire quella che appare una matrice anche psicologica della diseguaglianza?

Più che una matrice psicologica è una matrice culturale, che dà forma alla identità di genere maschile e femminile. Come segnalano i recentissimi dati provvisori dell’ultima indagine ISTAT sugli stereotipi di genere, c’è ancora una consistente minoranza della popolazione tra i 18 e i 70 anni, più ampia tra gli uomini che tra le donne, che condivide modelli di genere asimmetrici. Ad esempio, il 24,8% degli uomini e il 18,3% delle donne pensa che gli uomini siano poco adatti ad occuparsi delle faccende domestiche, il 23% degli uomini e l’11,5% delle donne ritiene che sia soprattutto dovere dell’uomo provvedere al mantenimento della famiglia, il 10,5% degli uomini e il 6% delle donne che in condizione di scarsità di lavoro i datori di lavoro dovrebbero dare priorità agli uomini, l’8,1% degli uomini e il 4,9% delle donne ritiene che in una coppia la donna debba assecondare le idee del compagno anche se non le condivide. Negli anni è intervenuta un progressivo, ma lentissimo, ridimensionamento di questi stereotipi che, comunque, come si vede rimangono e sono anche riflessi nel modo in cui è organizzato il lavoro, nelle procedure di assunzione e progressione di carriera, nella persistente scarsa priorità attribuita alla offerta di servizi e al riequilibrio tra uomini e donne relativamente alle responsabilità di cura familiare (si veda l’esiguo congedo di paternità e la scarsa incentivazione a che i padri partecipino del congedo genitoriale). Per aggredire strutturalmente rapporti sociali così sclerotizzati  è essenziale un profondissimo  lavoro culturale che si accompagni a decisioni di policy coerenti con un modello paritario.


Condividi: