28 Mag Il lavoro
di Laura Ippoliti
Quando ero in quarta ginnasio mi assegnarono un compito di italiano che mi invitava a riflettere sulla celebre frase “il lavoro nobilita l’uomo.” Il mio svolgimento fu, grosso modo, bè col cavolo! Se uno potesse scegliere, se ne starebbe tutto il tempo a fare solo quello che gli pare. Nonostante scrivessi benino e argomentassi decentemente, quella presa di posizione, politicamente scorrettissima, mi fruttò un bel 4. Difendo ancora a spada tratta la mia necessità di allora di ficcare il naso dentro una frase fatta, un luogo comune, che a me sembrava avesse, più che altro, uno scopo consolatorio e un tantino ipocrita verso chi faceva un lavoro squalificante. Ma ora, a distanza di parecchi anni, sono felice di affermare che il professore aveva ragione e io torto.
Parlando in linea assolutamente teorica, il lavoro è uno scambio alla pari in cui qualcuno mette a disposizione una sua capacità e qualcun altro la paga. Questa operazione, sempre in linea teorica, mette sullo stesso piano chi compra e chi vende e attua quell’equivalenza, se non proprio uguaglianza, che sempre auspichiamo fra esseri umani. A nessuno infatti verrebbe in mente di pensare che io che compro le tue mele valgo più di te che le vendi. O, peggio, che tu che vendi le mele debba ringraziarmi, prostrarti, soccombere a ogni genere di sopruso di fronte a me che ti pago per averle. Io ho bisogno delle mele esattamente come tu hai bisogno di venderle. Non possiamo vivere l’uno senza l’altro. La dignità di entrambi è salvaguardata da questo reciproco riconoscimento.
Anche se questo paradigma è assolutamente onirico, dobbiamo tenerlo fisso davanti a noi come la stella polare. Per capire che, per quanto ce ne siamo allontanati in modo brutale e spesso rivoltante, il pessimo voto che mi sono beccata al ginnasio era sacrosanto.
Il lavoro nobilita uomini e donne in quanto darebbe loro (il condizionale è d’obbligo oggi) la dignità di non dover ringraziare nessuno per quello che riescono a ottenere con le loro forze/capacità, giustamente retribuite. Quindi va difeso a qualunque costo perché l’alternativa è semplice quanto agghiacciante e si chiama sopraffazione, umiliazione e, in definitiva, privazione delle libertà più elementari.
Senza il lavoro, cioè senza una fonte di reddito onesta, equa e dignitosa, una persona ha poche alternative: o chiede l’elemosina, o ruba o muore. Nessuna di queste opzioni è in grado di nobilitare chicchessia. Ma è perfettamente efficace per infliggere insicurezza, paura, depressione, disperazione. Tutte emozioni che rendono l’individuo estremamente fragile ed esposto a ogni tipo di ricatto, di manipolazione e, appunto, di sopraffazione. Ecco perché quando una fabbrica o un’azienda minaccia di chiudere, le persone che si mobilitano non chiedono carità né sussidi, ma affermano e difendono il loro diritto al lavoro. Quindi occhio a chi dice, come sostenevo io da ragazzina, che è molto meglio passare la vita a fare quello che ci pare piuttosto che a lavorare. Non è così semplice come sembra.
Massima attenzione soprattutto oggi, che questa possibilità si profila all’orizzonte e non è affatto una buona notizia.
Cosa c’è oggi di nuovo? È arrivata l’AI, sigla che identifica, molto ma molto impropriamente, la cosiddetta Intelligenza Artificiale. Potremmo stare qui ore a discutere cosa significhi “intelligenza” ma una cosa è certa: non ha niente a che fare con l’AI, che esegue compiti impressionanti a velocità impensabili ma non ha nessuna coscienza di quello che sta facendo mentre parla, calcola o addirittura “crea”, visto che non fa altro che assemblare dati secondo un criterio puramente statistico.
Quando il vostro “assistente vocale” vi manda a quel paese non è che vi odia, ma ha solo pescato la frase più probabile che un essere umano direbbe in quella circostanza.
L’AI non cogita, quindi non è, ma ciononostante è innegabile che già ora, in questo preciso momento, buona parte delle attività umane sono replicabili dai software. Non intendo addentrarmi nella disputa subito esplosa fra chi prevede esiti apocalittici (l’Ai, se non regolata, può cancellare l’umanità dalla faccia della Terra) e chi invece crede nell’avvento di una non meglio precisata “età dell’oro” dove, oltre a mille altre impensabili migliorie, l’umanità sarà liberata dal lavoro. La verità è che l’evoluzione dell’AI è talmente rapida che, se vogliamo dirla tutta, nessuno è in grado di starle dietro. Ma Elon Musk, solo poco tempo fa, ha affermato che l’umanità sicuramente, prima o poi, non dovrà più lavorare. “Non so se questo metterà le persone a disagio” ha aggiunto, “ma una delle sfide del futuro sarà anche quella di trovare un senso alla vita”. L’ha buttata là, come se questa “sfida” fosse una cosa da niente e non lo spartiacque fra la sopravvivenza del genere umano e la sua estinzione.
La prospettiva secondo lui, sembra essere quella di rendere gli umani liberi di fare ciò che vogliono, come dicevo io in quarta ginnasio. Creare, leggere, contemplare la natura, viaggiare.
Ma naturalmente la prima domanda che si pone è: con che soldi? Finanziati da chi? E a quale scopo? Finiremo tutti come adolescenti con la paghetta? Da impiegare per acquistare i beni e i servizi che l’AI produrrà per noi?
E a ricasco, in una eventualità del genere, finanziati in cambio di niente da una specie di genitore che possiamo solo sperare benevolo, riusciremo a non perdere, oltre al senso della vita, quello straccio di autodeterminazione che ancora ci resta finché abbiamo qualcosa (le nostre competenze, la nostra peculiare abilità, la nostra forza, la nostra intelligenza, la nostra creatività) da scambiare per garantirci un dignitoso mantenimento, una possibilità di autorealizzazione e un minimo senso di sé?
Quel lavoro che, appunto, ci nobilita e ci rende liberi anche quando è “umile”?
La perdita del senso di sé, poi, non ci riguarda solo come individui ma anche come specie, il che è più pericoloso. E dunque, cos’è che ci dà il senso di noi come genere umano?
Ero sempre una ragazzina quando mi facevo un’altra ingenua domanda. Perché un’opera di Picasso, per esempio, costava tutti quei soldi? In fondo, mi dicevo, ci sono bravissimi pittori in grado di fare infinite copie di quel quadro e se il suo valore fosse solo la bellezza, o comunque il fatto che mi piace, chiunque potrebbe averlo in casa pagando molto meno. Allora perché c’è qualcuno disposto a spendere milioni per l’originale?
Cosa sta comprando che io non vedo?
Sta comprando forse una prova del valore della nostra specie? Un valore che ci accomuna tutti in un caldo e orgoglioso senso di appartenenza? Proprio quell’identità che rischiamo di perdere? È l’opera d’arte in sé, la geniale scoperta scientifica, la testimonianza storica del nostro progresso verso la civiltà, che ci emoziona? O quello che rappresentano in quanto prodotti da noi?
Proveremo altrettanto orgoglio di fronte alle magnifiche opere di un super computer, nobilitato da un lavoro non più nostro?