Cromostorie di fiori ingenui

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di Giovanni Fontana

Si è recentemente concluso ad Alatri il festival “Visioni Molteplici”, manifestazione organizzata dall’Associazione Gottifredo con interventi teorici, tecnici e variamente creativi articolati intorno all’inaugurazione della “Biblioteca totiana”, che raccoglie il fondo archivistico di Gianni Toti, donato da Pia Abelli, seconda moglie dello scrittore e poetronico di fama internazionale. La signora Abelli aveva amorevolmente ricostruito la sua casa romana di Via dei Giornalisti 25 in un archivio-laboratorio a via Ofanto 18, costituendo l’associazione culturale “La casa totiana”. I volumi lì custoditi, le carte, i disegni, le fotografie, i videopoemi sono ora conservati nei locali dell’Associazione Gottifredo, che si propone di promuoverli e valorizzarli con opere di digitalizzazione e creando progetti e occasioni di studio in collaborazione con università e istituti di ricerca. 

La donazione comprende anche un buon numero di opere della pittrice ungherese Marinka Dallos (Lőrinci 1929 – Roma 1992), prima moglie di Gianni Toti, da lui conosciuta a Budapest nel 1949 in occasione dell’Incontro mondiale della gioventù comunista e sposata l’anno successivo. Gianni e Marinka si occupano di poesia e in particolare si impegnano nella promozione della produzione letteraria ungherese, finché l’interesse principale di Marinka non diventa la pittura. Agli inizi degli anni ‘60, infatti, si rivela un’eccellente pittrice naïve. Organizza mostre, scrive testi teorici e successivamente fonda con alcuni artisti romani (Amelia Pardo, Graziolina Rotunno, Alfredo Ruggeri e Maria Vicentini) il “Gruppo dei Romanaïfs”, esponendo in Italia e all’estero.

Con una trentina di tele realizzate tra il 1963 e il 1992, rappresentative della sua intera produzione artistica, l’Associazione ha allestito nell’ala settecentesca del Palazzo Gottifredo una mostra che evidenzia come la pittrice, sia pure libera da vincoli accademici e dai condizionamenti dell’ufficialità artistica, sperimentale e non, abbia lavorato in ambito naïf senza cedere al côté riduttivo del primitivismo ingenuo di maniera.  

È ben noto che nella sfera dell’arte il ruolo dell’artista non è mai legato alla sola produzione dell’opera. È un fenomeno che si affaccia nella storia con regolarità, secondo caratteri e modalità di volta in volta differenti. L’opera d’arte è l’elemento su cui convergono, intrecciandosi saldamente, talora con spiccata reciprocità funzionale, le componenti di un sistema complesso che coinvolge competenze professionali sul piano artistico, lavoro critico, padronanza del mercato, sostegno mediatico, attenzione da parte delle collezioni private e delle istituzioni museali pubbliche, con l’intento di analizzare, valorizzare, tesaurizzare e storicizzare. Giusta o non giusta che sia – nonostante l’opposizione di alcuni gruppi e correnti artistiche (un esempio su tutti quella del Situazionismo) – la realtà è questa, seppure indiscutibilmente carica di contraddizioni, paradossi e provocazioni, giunte al gesto estremo della banana di Cattelan all’Art Basel di Miami.

In questo quadro, all’artista non si richiedono solo competenze sul piano creativo e tecnico, ma anche spiccatamente culturale, in ragione della sua qualità di osservatore del mondo, sul quale agisce in termini linguistici, intermediali, ma anche sociali e/o filosofici o politici, secondo una sua precisa Weltanschauung. Ecco, pertanto, che alla qualità estetica, agli aspetti teorici, compositivi e semantici del prodotto artistico si aggiunge la necessità promozionale proveniente da figure specializzate in altri settori (economici, finanziari, gestionali, tecnico-legali, mediatici, ecc.): comparti, questi, che sembrano estranei all’arte quando si ha una visione riduttiva del fenomeno, ancora legato ad un sentire idealistico elementare, se non addirittura semplicistico, che intende il gesto artistico come personale occorrenza di espressività da condividere in un ristretto ambito relazionale, come avviene nei cosiddetti pittori della domenica e in molti artisti naïf.

Dopo il caso del Doganiere Rousseau, che si impone al Salon des Indépendants di Parigi nel 1886, a partire dai primi decenni del secolo scorso si comincia a parlare diffusamente di Art naïf con riferimento a quella produzione artistica svincolata dalla riflessione teorica, priva di solide premesse tecniche, praticata per lo più da autodidatti, che non hanno cognizione del dibattito in corso, né legami con la realtà culturale, se non quella di ridottissime nicchie, né relazioni col sistema dell’arte, tantomeno con l’accademia ed altre istituzioni del settore.

Si parla di spontaneità, genuinità, di candore che traspare da forme elementari definite con ridotta abilità tecnica, con difetti di prospettiva, con tavolozze cromatiche piatte e sgargianti, caratterizzate da visioni principalmente legate ad ambienti fantastici agognati o scavati nella memoria di un mondo scomparso per il quale si prova nostalgia. Marinka Dallos abita questo territorio dell’arte e si distingue ricercando un’immediatezza comunicativa attraverso il racconto. La sua è un’espressività diretta, alimentata soprattutto dalla passione per la sua terra d’origine, di cui ricorda e mitizza usi e costumi, conscia del fatto che quella civiltà contadina va scomparendo. Le antiche tradizioni sono cancellate dai nuovi processi di consumo, frutto dei sopravvenienti sistemi produttivi e di mercato, e di un’evoluzione del pensiero che comporta altre abitudini di vita. Marinka Dallos mostra un forte attaccamento a quella realtà che svanisce, probabilmente senza rendersi perfettamente conto del fatto che, perdendo di vista lo spessore della vita reale e delle relative complessità, le sue nostalgie possono pericolosamente glissare sul folklore.

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