La bambola e i bicchieri fragili

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di Simona Malpezzi

Penso che esistano due vocabolari a disposizione di ciascuno: uno generale, comune, che racchiude i significati diffusi e compresi in assoluto. L’altro più personale che parla a ciascuno di noi, carico dei significati che ognuno attribuisce: il vocabolario delle emozioni.

La prima volta che ho incontrato il termine fragilità, o meglio che ho provato a comprenderlo in un’accezione del tutto personale, è stato durante un trasloco. Ero piccola ma sapevo leggere. Su uno scatolone che mia madre aveva riempito con cura di bicchieri di cristallo, quelli della vetrina della nonna, c’era scritto a grandi lettere “fragile”.

Immediatamente provai ad infilarci la mia bambola preferita. Ricordo che mia madre spese parole per me durissime da comprendere: la bambola non si rompe e quindi non può andare con i bicchieri. Eccolo lì inesorabile, il contrasto tra i due vocabolari: se sei a rischio rottura sei fragile, altrimenti sei necessariamente l’opposto, resistente, duro, solido. Penso che inconsciamente il mio primo scontro con le accezioni diverse abbia avuto inizio lì: possibile che l’oggetto del cuore, che deve essere conservato, protetto, non possa essere trattato con cautela anche se non apparentemente a rischio di rottura?

Fragilità è l’opposto di resistenza e resistente è forte. Quindi se traslato ciò che apparentemente non è fragile, ciò che apparentemente non rischia di rompersi, non ha bisogno di cure e di attenzione. Da qui il cortocircuito: nella società e nella politica. Ecco, io credo profondamente che la fragilità non palesata, latente e nascosta, debba diventare invece categoria e oggetto della politica che vuole prendersi cura del futuro: significa che la politica accoglie la sfida che dovrebbe esserle propria: pre-vedere. Per farlo bisogna che essa sia in grado di interpretare la realtà e la società per intero: non esiste un singolo uomo che non abbia incontrato nella sua vita la fragilità, esistono modelli diversi nel rapportarsi ad essa. C’è chi l’accoglie, chi la contrasta, chi ne ha paura, chi la nasconde.

Non me ne vorranno i critici letterari se in modo assolutamente personale definisco Ungaretti il cantore della fragilità nascosta, di quella fragilità nell’accezione della profonda capacità di riconoscersi, di saper scavare dentro di sé senza paura, andare a fondo, trovare la parola e portarla alla luce. Era per Ungaretti il viaggio nel porto sepolto, era il percorso della parola poetica da trovare dentro sé e da diffondere. Era la ricerca di una parola che fosse essenziale, anche scarna, anche dura, ma poi capace di essere calda come il sole dell’Egitto. La parola per riconoscersi e riconoscere tutti nelle proprie differenze. 

Invece la politica interviene, quando interviene, solo di fronte ad una fragilità certificata, già palesata, senza provare a lavorare sulla consapevolezza della fragilità. Provo ad esemplificare: durante il terribile periodo della pandemia la politica ha provato a dare le risposte immediate alle situazioni contingenti trascurando, vuoi per l’emergenza ma vuoi anche per un approccio culturale non ancora pronto, quelle fragilità latenti che potevano esplodere e trasformarsi in disagi se non raccolte, accolte e portate, appunto, alla luce, secondo un principio di consapevolezza. I nostri ragazzi, bambini e adolescenti, sono stati considerati gli ultimi verso i quali mettere in atto misure di supporto: tolta la socialità per una giustissima messa in sicurezza, non si è fatto nulla, o molto poco, per leggere quali effetti in quella età quelle privazioni potevano provocare. Le risorse sono state tutte messe a disposizione del lavoro, delle imprese, del sostegno alle famiglie. Solo dopo abbiamo iniziato a parlare di sostegno psicologico, di aiuto, di consapevolezza. E i numeri nudi e terribili di questo malessere sono esplosi di fronte ai nostri occhi: secondo una ricerca del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), pubblicata a ottobre 2021, c’è stato un aumento del 31% dei pazienti in terapia con meno di 18 anni. Tra loro 1 su 2 vive un disagio psicologico e 1 su 10 manifesta un disturbo.

E ancora oggi, ad anni di distanza e di fronte a dati che dovrebbero farci accapponare la pelle, non è stata messa in campo alcuna misura strutturale a favore del sostegno psicologico dei nostri ragazzi e non solo del loro. Si parla di salute mentale ma non si affrontano i bisogni e non si interviene di fronte ad una situazione che dovrebbe interrogarci e spaventarci tutti: dal 2011 a oggi le richieste di visite psichiatriche in emergenza per minori, sono aumentate di 11 volte, passando dalle 150 del 2011 alle oltre 1.800 del 2021. Autolesionismo, tentativo di suicidio, ansia e depressione: sono giovanissimi e si sono moltiplicati i pazienti ricoverati per questo. I ricoveri in ospedale per cause legate ai disturbi del comportamento alimentare sono triplicati tra il 2019 ed il 2021 e nel 2022 l’età di esordio di queste patologie è scesa a 11-13 anni.

Cosa sta succedendo? È stato solo il covid o la nostra società è profondamente cambiata e rende i più giovani più fragili? Siamo in grado noi adulti di leggerla questa fragilità, di riconoscerla, di trattarla come mia mamma trattava i bicchieri di cristallo della nonna dentro lo scatolone?  Quanta fragilità che non vediamo c’è in questi ragazzi che non sono solo nativi digitali ma generazione social, bambini capaci di stare seduti su un divano insieme ad altri coetanei senza parlarsi, ciascuno in costante connessione con una dimensione parallela data dalla connessione virtuale che hanno sempre tra le mani. Sono i ragazzi della generazione del tutto e subito perché abituati ad avere risposte in un click ma senza avere la certezza che quelle risposte siano giuste e vere perché non esiste un aiuto allo sviluppo del senso critico nella ricerca delle fonti. Uno smartphone a portata di mano con tutte le informazioni del mondo nel giro di pochissimi secondi a loro disposizione senza la vera consapevolezza di sapere come utilizzarle. E anche questa è una grande fragilità perché hai in mano uno strumento potentissimo ma non hai le competenze per poterlo gestire. Quanto sei fragile in questa condizione in cui invece pensi di essere onnipotente? 

E poi c’è la fragilità delle relazioni umane: quanto quella velocità a cui ci stiamo abituando impedisce ai nostri ragazzi di fare i conti, belli, con la noia, con la pazienza, con l’attesa riflessiva? Quanto limita quella sacra possibilità di fare il viaggio dentro di sé per portare a galla le fragilità e non averne paura. E mi chiedo allora se questa età dove si sta manifestando questo grande malessere nell’adolescenza non sia figlia di questo nuovo modo di vivere le relazioni. O di non viverle. Perché aumentano i casi in cui i nostri ragazzi si isolano, aumentano i casi di dipendenza dal mondo on-line, dall’iperconnessione, aumentano i casi di deprivazione da sonno e quindi di una gestione del tempo lontana da quella conosciuta. 

E mentre c’è un’epoca differente che si dipana con tanta velocità e dolore, la politica non fa nulla per prendersene cura. Perché i numeri sembrano non bastare a certificare la necessità di intervento tanto che il “come stanno’ i nostri bambini e ragazzi non è un tema in cima all’agenda politica. Eppure sta a noi adulti, politici e non, contribuire a far diventare la fragilità centrale, tracciare una nuova strada, fatta di reti e protezioni. Creare una comunità capace di prendersi cura e di orientare nel labirintico vocabolario delle emozioni.

Già nella scorsa legislatura abbiamo provato ad introdurre nel dibattito politico il termine Comunità educante, come aiuto contro le fragilità. “In tempi di grandi trasformazioni sociali, relazionali e culturali, e a fronte di una crescente incertezza educativa, è necessario potenziare il sostegno e lo sviluppo della comunità educante, recuperare alleanze e collaborazione per offrire risposte efficaci alle emergenze, affiancare i docenti e i genitori nelle relazioni con gli studenti e le famiglie, potenziare le reti educative con enti locali, Terzo settore e tutte le realtà che agiscono in tali ambiti”. Inizia così la relazione illustrativa del disegno di legge sulla comunità educante incardinato al Senato che cerca proprio di costruire la rete, le reti, tra le scuole e il territorio in cui sono inserite. Rete come protezione ma anche come connessione: tutte le agenzie educative finalmente collegate in sinergia per un’azione comune che aiuti la scuola a cui troppo oggi viene delegato e la cui azione spesso viene svolta in profonda solitudine.

Perché abbiamo una scuola che è resa molto più fragile da un sistema sociale che fa sempre più fatica a riconoscersi come comunità educante, con famiglie che spesso vivono molte difficoltà e che in alcuni casi sono anche portate a vivere la scuola come l’ambiente rispetto al quale sentirsi estranei e non partecipi. Abbiamo bisogno di una grande alleanza educativa per consentire alla scuola di non essere lasciata sola, di costruire patti educativi e di potere essere collegata a oratori, consultori, associazioni, enti locali per stabilire quale progettualità educativa è più adatta alle scuole e alle famiglie di quello specifico territorio. Con il prezioso aiuto e sostegno di educatori, pedagogisti e psicologi, figure qualificate e fondamentali in questa alleanza con insegnanti e famiglia. Sono loro a poterci aiutare nella costruzione e traduzione del vocabolario delle emozioni perché è proprio questa nuova alfabetizzazione che può consentire ai ragazzi di comprendere e leggere la propria fragilità e quella degli altri. Un “esercizio” che comporta il riconoscimento delle emozioni per potersene prendere cura. Come di quella bambola insieme ai bicchieri di cristallo della nonna.


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