16 Ott A proposito di fragilità
di Marino D’Angelo, Presidente di Abili Oltre Aps
Le parole sono fugaci per natura e la loro fortuna e disgrazia è legata al momento storico in cui prendono vita o vivono. Una dimensione fluida che a tratti le porta alla ribalta, a tratti le fa dimenticare o mutare di significato e di valore.
“Fragilità” non fa eccezione alla regola, anzi probabilmente ne è una delle manifestazioni più sintomatiche.
Nella storia dell’Umanità la parola fragilità non ha mai avuto un significato univoco, quasi un tao in cui i principi yin e yang convivono e si confondono.
Per un verso la fragilità è stata vissuta e descritta come un requisito di sensibilità, di grazia spirituale, di introversione creativa. Quella fragilità che regna sovrana nelle biografie dei grandi poeti, dei pittori, dei musicisti, degli scienziati, dei santi portatori del messaggio di un Cristo che sceglie di vestirsi proprio della fragilità dell’Uomo per annunciare il regno di Dio.
Dall’altro come una condizione di non abilità, quella che va dal sottrarsi alle responsabilità di Don Abbondio fino al soccombere della natura umana di Ettore di fronte a quella divina di Achille. Nella seconda metà del secolo scorso la parola vive un periodo di buio, cedendo il passo di fronte all’affermarsi del dizionario dei movimenti popolari in lotta per un nuovo modello sociale, che avvertono il bisogno di un vocabolario meno “olistico” per la narrazione dei loro valori.
La prospettiva si sposta dalla condizione soggettiva a quella oggettiva della persona, al suo status socioeconomico. Dunque non fragili ma svantaggiati, sfruttati, discriminati, emarginati e così via. In questi ultimi anni si assiste ad una decisa inversione di tendenza.
La fragilità riprende centralità nel parlare quotidiano e nelle produzioni letterarie e scientifiche, diventa la regina dei sostantivi da sposare agli aggettivi qualificativi del multiverso individuale. Fragilità fisica, psicologica, sociale, economica, generazionale, diventano i loghi del racconto del vivere ed agire contemporaneo.
È dunque legittimo interrogarsi su cosa intendiamo oggi per fragilità, considerando questa riflessione non come un esercizio di mera ricerca linguistica ma piuttosto come un indispensabile accertamento del quadro di riferimento delle scelte politiche, sociali ed economiche orientate a rimuovere le diverse condizioni di fragilità che riconosciamo nei nostri tempi. Qualche dato di scenario ci aiuta ad orientarci.
In Italia le Persone con disabilità sono circa 13.000.000, di cui oltre 3.000.000 in condizioni gravi ed un terzo a rischio povertà.
Gli Over 65 sono 14,177 milioni, pari al 24,1% della popolazione totale.
Nelle carceri italiane sono detenute circa 56.600 persone e 133.675 sono in carico penale esterno.
Circa 5,6 milioni di italiani ed italiane sono in stato di povertà assoluta e 8 milioni in povertà relativa. Uno stato che riguarda quasi il 23% della popolazione. Tra questi circa 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori sono poveri anche se lavorano. La depressione conclamata interessa 2,8 milioni di persone e il 7% degli italiani assume regolarmente farmaci antidepressivi.
L’analfabetismo funzionale di primo livello si attesta in Italia al 28,8 per cento, balzando a circa la metà della popolazione se riferito al terzo livello della tabella di comprensione.
Il digital mismatch nel nostro Paese, vale a dire il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro in campo digitale, interessa oltre 1.500.000 di persone ed è destinato ad aumentare significativamente nei prossimi anni.
Uno scenario che suggerisce una riflessione di fondo: la fragilità in quanto tale non è una patologia individuale, ma il prodotto di una condizione di emarginazione che travolge l’individuo nella sua relazione con il mondo.
Un senso di impotenza in cui la cultura abilista dominante precipita ogni forma di difformità dal suo modello di successo.
La fragilità non esiste. Esiste invece la sopraffazione, l’ingiustizia sociale che priva le persone del diritto a vivere per come si è in pari dignità con tutti.
Ci ammaliamo di fragilità quando viene rifiutata la nostra identità, quando il nostro fare, il nostro pensare non trova spazio e riconoscimento sociale.
Il primo passo per salvarsi dalla fragilità perciò significa negarla, capire che la fragilità è l’essenza della natura umana per cui tutti fragili, nessun fragile.
Si parla di questo secolo come un’epoca di svolta nel cammino di sviluppo e progresso della umanità. Ma perché questa svolta non si fermi alla sola rivoluzione degli strumenti e diventi un vero rinascimento bisogna che venga alla ribalta una nuova regina delle parole: convivenza.
Quella convivenza che nasce dall’accettare l’altro con la voglia di scoprirlo e non di giudicarlo, riconoscendo che la tanto sbandierata normalità, come scriveva Alda Merini, è in fondo solo una invenzione di chi è privo di fantasia.