09 Giu Twiplomacy
di Véronique Viriglio
Quando si dice che tutto il mondo è paese: oltre ai politici nostrani, sui social a cedere alla tentazione di post provocatori, eccessivi, rabbiosi, cattivi, in una sola parola fuori luogo, sono anche i leader delle principali potenze mondiali. Già da tempo l’uso eccessivo dei social network, Twitter in primis, alimenta un dibattito rilanciato ciclicamente sull’opportunità di proibire a capi di stato e di governo il loro utilizzo. Un dibattito che ha trovato una certa sostanza quando, il 9 gennaio 2021, Twitter ha deciso di rimuovere il profilo del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in seguito ad alcuni suoi tweet che legittimavano l’attacco del 6 gennaio al Congresso. Una vicenda che ha chiaramente evidenziato i rischi che i social network diventino veicoli di propaganda politica, soprattutto se usati da politici di alto livello in maniera eccessiva e con toni aggressivi. Lo scorso ottobre, Elon Musk ha comprato il social network per 44 miliardi di dollari, una decisione motivata qualche mese prima dal fatto che su Twitter non era più garantita la libertà di espressione, sulla scia dell’esclusione dalla piattaforma del suo amico Trump…
“I capi di stato e di governo non dovrebbero essere autorizzati a twittare. Una persona a capo di una nazione dovrebbe avere cose migliori da fare. Se il presidente vuole parlare, allora dovrebbe salire su un podio, pubblicare un comunicato stampa, parlare con un giornalista, comprare un annuncio o convocare i media allo Studio Ovale. La possibilità di scrivere i propri pensieri sulla guerra mentre si guarda la TV forse andrebbe lasciata a persone che non possono mettere fine al mondo premendo un pulsante”, ha argomentato Farhad Manjoo, editorialista del “New York Times”. Come lui, molti opinionisti si sono chiesti se non fosse il caso di riformare i social network e impedire che i capi di stato e di governo scrivessero a piacimento in ogni momento e su ogni questione, diffondendo anche potenzialmente notizie false.
Chiaramente il problema non riguardava e non riguarda solo Trump, ma a turno in tanti si sono lasciati andare all’impulso di esprimere un pensiero cattivo, in 280 caratteri, scritti magari sull’onda dell’emotività, senza revisione, su una piattaforma privata il cui algoritmo segreto è stato progettato per generare indignazione. Su questo terreno rischioso e scivoloso, si sono avventurati con una certa frequenza l’ex presidente brasiliano di estrema destra Jair Bolsonaro, il presidente venezuelano Nicolás Maduro, e la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, campioni di provocazione, propaganda politica e diffusione di fake news, nonché di commenti cattivi e offensivi nei confronti dei loro rivali.
Tra i tanti ‘duelli’ al vetriolo andati di scena sulla piattaforma social più usata dai politici, uno che mi è rimasto particolarmente impresso è stato quello tra il presidente francese Emmanuel Macron e l’ex presidente brasiliano Bolsonaro, diventati peggior nemici. Un susseguirsi di tweet sempre più cattivi e offensivi, in un’escalation ‘accesa’ dalla foresta amazzonica devastata dalle fiamme nel 2019, con secondo fonti indipendenti, incendi in aumento del 145%. Ad aver scatenato l’ira del ‘Trump dei Caraibi’ – così è stato soprannominato dai media – è stato un tweet del presidente francese che recitava: “La nostra casa sta bruciando. Letteralmente. La foresta pluviale amazzonica – il polmone che produce il 20% dell’ossigeno del nostro pianeta – è in fiamme. È una crisi internazionale. Membri del vertice del G7, discutiamo di questa emergenza tra due giorni!”. Piccata la risposta di Bolsonaro, sempre tramite Twitter: “Mi dispiace che il presidente Macron cerchi di strumentalizzare una questione interna del Brasile e di altri Paesi amazzonici per vantaggi politici personali. Il tono sensazionalista con cui si riferisce all’Amazzonia (accompagnato tra l’altro da foto false) non fa nulla per risolvere il problema. Il governo brasiliano rimane aperto al dialogo, basato su dati oggettivi e rispetto reciproco. Il suggerimento del presidente francese di discutere le questioni amazzoniche al G7 senza la partecipazione dei Paesi della regione evoca una mentalità colonialista fuori luogo nel 21esimo secolo”.
Nel bel mezzo dell’aggravarsi della crisi diplomatica sugli incendi in Amazzonia, si sono alzati i toni del confronto-scontro tra i due capi di stato. Dopo che un utente aveva pubblicato una foto non proprio ben riuscita di Brigitte Macron, messa a confronto con uno scatto avvenente di Michelle Bolsonaro, accompagnate dal commento “Adesso capite perché Macron perseguita Bolsonaro?”, tra le varie risposte spicca quella del presidente brasiliano in persona. Invece di tacere o di una risposta diplomatica, Bolsonaro ha deriso la consorte del suo omologo francese per il suo aspetto fisico, con un suo tipico commento sessista: “Non umiliarla, kkkkkkk”, che sta per “tante risate”. La replica dell’inquilino dell’Eliseo non si è fatta attendere, infierendo un duro colpo: “È una cosa triste per il Brasile, le donne brasiliane devono essere tristi, sono sicuro che provano vergogna. Questi sono attacchi irrispettosi”. Il presidente francese ha poi aggiunto: “Auguro ai brasiliani di avere presto un presidente all’altezza”. Come se non bastasse, anche l’allora ministro brasiliano dell’Istruzione, Abraham Weintraub, ha attaccato Macron, dicendo che “non è all’altezza di questo dibattito. È solo un opportunista imbroglione in cerca dell’appoggio della lobby agricola francese”. Un riferimento all’opposizione del capo di stato francese all’accordo di libero scambio Ue-Mercosur, che si è proposto come capofila della coalizione di Paesi che vorrebbero uscire dal patto. “I francesi hanno eletto un governante senza carattere”, ha sentenziato Weintraub in un altro tweet.
Più recentemente, nel contesto particolarmente polarizzato e incandescente della guerra tra Ucraina e Russia, un tweet emblematico, sparato con una raffica di insulti, è quello che l’ex presidente russo Dmitry Medvedev ha indirizzato contro l’allora premier italiano Mario Draghi, il presidente Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, per essersi recati in visita a Kiev, nel giugno 2022. “I fan europei di rane, wurstel e spaghetti adorano visitare Kiev. Con zero utilità. Promettono l’adesione all’Unione Europea e vecchi obici in Ucraina, ubriachi di horilka (una bevanda alcolica ucraina) e se ne vanno a casa in treno, come 100 anni fa. Tutto bene. Tuttavia, questo non avvicinerà l’Ucraina alla pace. Il tempo scorre”, aveva twittato Medvedev. Se Twitter è stato creato per “abbassare” le barriere comunicative, questi due scambi di tweet – esempi tra decine di altri – seppur relativamente inoffensivi rispetto a quello definito “più irresponsabile della storia” – quando Trump minacciava il dittatore nordcoreano Kim Jong-un di avere “un pulsante nucleare più grande del suo” – sono la riprova che si tratta di uno strumento potenzialmente inadatto per i leader mondiali, chiamati piuttosto a ponderare attentamente le proprie parole, proprio per le loro responsabilità anche in veste di diplomatici. “Il peso delle loro dichiarazioni dovrebbe essere un freno che li induca a fermarsi prima di esprimersi, poiché le loro parole possono avere conseguenze immediate e, plausibilmente, possono influenzare miliardi di persone. Alcuni leader hanno innescato genocidi e pogrom con le loro parole. Le parole sbagliate sulla guerra nucleare potrebbero letteralmente porre fine alla civiltà umana”, aveva scritto nel 2018 Conor Friedersdorf, giornalista dell’Atlantic. Saggio consiglio che vale sempre e ad ogni latitudine.