L’8 Settembre in letteratura

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Intervento di Ginevra Amadio in occasione dell’evento “Roma Occupata” tenutosi venerdì 8 settembre 2023 a Roma – Teatro Porta Portese

<<Come se la guerra fosse davvero finita>>

Ci sono diverse porte d’accesso per affrontare la data-simbolo dell’8 settembre 1943. Stasera l’occasione ci è offerta da uno spettacolo teatrale, dalla prima tappa di un percorso che mira a intrecciare Storia e memoria, svelando già negli intenti quella necessità – a mio avviso mai azzardata – di ricorrere a tagli ‘laterali’ per affrontare gli eventi, di scegliere la prospettiva artistica per illuminare il presente.

Nel solco di tale intento, ritengo utile valutare il riflesso linguistico-testuale degli accadimenti citati, la loro possibilità di farsi materia letteraria. Lo storico Luca Baldissara nel suo saggio dal titolo Italia 1943. La guerra continua, pubblicato da Il Mulino, considera quello dell’armistizio un ‘anno-specchio’, una sorta di punto di origine e coagulazione del nostro Stato disunito, disgregato, spesso soggetto a vuoti di potere.

L’evaporazione dei punti fermi e la scomparsa dell’autorità pongono il singolo di fronte all’urgenza dell’azione, o quanto meno a un interrogativo inerente il proprio ruolo, il proprio destino. La sensazione di angoscia e indeterminatezza è ben fotografata da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare (1963):

La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l’era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c’era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c’era. In Italia fu così la guerra.

Lo stile di Ginzburg, del tutto peculiare, è asciutto, a volte sincopato, sobrio e pacato. Un tratto che pertiene al testimone, il cui tono è ‘definito’ da Primo Levi nell’appendice a Se questo è un uomo (1947; 1991): «Pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione». Funzione che è, ancora con le parole di Levi, «quella di preparare il terreno al giudice», da lui indicato in un generico e diretto “voi”, a significare i lettori, tutti, di tutte le epoche, ai quali un testo di questo tipo riesce a comunicare ancora la tragicità degli eventi attraverso una memoria che si fa letteratura e poi, quasi contemporaneamente, diventa storia.

Così Se questo è un uomo diviene l’emblema non solo di una testimonianza centrale ma anche di un certo potere conoscitivo della letteratura che, in molti casi, si spinge ad anticipare le conclusioni, a fotografare i chiaroscuri della Storia.

Un’ulteriore conferma ce la fornisce La casa in collina di Cesare Pavese, romanzo scritto nel 1946 e colmo di considerazioni sulla Resistenza che saranno portate alla ribalta dagli storici solo negli anni successivi: il concetto di guerra civile, l’esistenza di una cosiddetta “zona grigia”, i sentimenti di colpa e di vergogna. In questo caso, l’autore piemontese ha già chiari nella fabula del romanzo una serie di problemi che solo molto più avanti la lente obiettiva degli storici prenderà in esame.

È così ancora per Levi, che nel racconto Oro incluso nella raccolta Il sistema periodico (1975) scrive:

E venne l’8 settembre, il serpente grigioverde delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia. In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più di disperazione che di speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa.

La vacuità del proclama Badoglio, dopo una prima illusione di libertà, consegnava di fatto il Paese allo sbando e alla confusione, svelando da un lato l’inadeguatezza del sistema politico e della casa regnante, e dall’altro la convinzione, per nulla infondata, che il passaggio con gli Alleati significasse, almeno in parte, una scelta sufficiente a garantire la cessazione di ogni ostilità. Quest’illusione, coltivata dalla maggioranza della popolazione ormai sfiancata, è ben descritta da Nuto Revelli in un memorabile passo de La guerra dei poveri:

La notizia dell’armistizio mi entra in casa dalla strada. Gridano che la guerra è finita, che Badoglio sta parlando. Con Anna scendo in via Roma, quasi di corsa, perché sento che un’altra guerra sta incominciando. La gente è raccolta di fronte ai caffè come al tempo dei discorsi del duce, come al tempo dei campionati mondiali di calcio, del giro di Francia: Chi non capisce, chi capisce a metà. Soldati che si abbracciano, bustine che volano. I soldati sono allegri come se la guerra fosse finita sul serio. Non è Badoglio che parla. Un disco lento e monotono chiede che l’Italia insorga con prudenza. Sembra rotto il disco, tanto è rauco. Sembra l’annuncio di un treno in partenza, che dovrebbe partire ma non parte mai… Riordino le idee. I tedeschi che cosa faranno? I tedeschi saranno spietati. C’è da sparare. Corro a casa. Indosso la divisa, prelevo i parabellum, filo in caserma. Ho la licenza di convalescenza in tasca, per la pleurite, per il congelamento. Fino a ieri credevo di reggermi in pedi soltanto con le endovene di calcio. Sono più forte di quanto non pensassi.

Il risveglio, o meglio il passaggio all’azione di una coscienza antifascista transita per il varco di un’Italia disorientata, resa campo di battaglia sul piano politico, sociale e della sua particolare forma fisica-geografica. È qui che si compie il salto, l’affermazione di una volontà di opposizione che è urgenza di libertà, di costruzione di un Paese altro. La letteratura ce lo racconta attraverso gli umori e i sapori, i dubbi e le debolezze di chi ha vissuto quella stagione. Lo fa osservando di lato, o guardando dal basso, sempre con la consapevolezza che un ‘racconto ci vuole’, se non altro per trasmetterlo a chi non ha memoria.


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