La cattiveria da Dostoevskij a ChatGPT

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di Michele Mezza

 “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.

La relazione fra male e pensiero è forse il contributo più originale e spiazzante di Hannah Arendt all’epistemologia della cattiveria, come dimostra questo passaggio del suo celeberrimo saggio sulla Banalità del male, scritto, come è noto, in occasione del processo ad Adolf Eichmann, il pianificatore della soluzione finale contro il popolo ebraico, e pubblicato nel 1963.

Solo forse Fëdor Dostoevskij ha lavorato proprio sulla razionalità, ancora meglio, la lucidità, della cattiveria come scelta personale, aprendo la strada all’analisi della dialettica fra male e cattiveria.

Il primo, ci sembra di capire dalle suggestioni letterarie del romanziere russo, temprate dall’ispirata elaborazione della filosofia tedesca, è un sentimento, un fungo – dice la Arendt- che si espande superficialmente nel mondo, quasi naturalmente.

La cattiveria è una componente dell’animo umano, un’attitudine ad interpretare la vita come contrapposizione agli altri individui. 

Diceva infatti Victor Hugo, ne I Miserabili, che “certe persone sono cattive unicamente per bisogno di parlare. La loro conversazione, chiacchiera nei salotti e cicaleccio nelle anticamere, somiglia a quei camini che consumano presto la legna: occorre loro molto combustibile, il prossimo.”

La cattiveria è una dinamica, ha bisogno di una relazione, di un contesto per dispiegarsi: ha bisogno di una vittima, spiega nel suo monumento alla cattiveria, quale è Delitto e Castigo, Dostoevskij. 

Mentre il male è una funzione individuale, una componente della persona, che si rispecchia solo nella sua personalità. Ancora Dostoevskij ci descrive il percorso psicanalitico che compie il male nella nostra anima, quando Raskol’nikov dinanzi al candore di Sonja racconta cosa lo ha portato ad uccidere:

Se per tanti giorni mi son tormentato a pensare se Napoleone ci sarebbe andato o no, è che sentivo già chiaramente di non essere un Napoleone… Tutta, tutta la tortura di quelle lunghe ciance io sopportai, Sonja, e mi venne il desiderio di sbarazzarmene di colpo: io volli, Sonja, uccidere senza tante casistiche, uccidere per me, per me solo! Non volevo mentire a quel riguardo neppure a me stesso! Non per aiutare mia madre ho ucciso, sciocchezze! Non ho ucciso per farmi, con la ricchezza e potenza, il benefattore dell’umanità. Sciocchezze! Altro avevo bisogno di sapere, altro mi spingeva: avevo allora bisogno di sapere, e di sapere al più presto, se io fossi un pidocchio, come tutti, o un uomo.”

Un bisogno, una pulsione, comunque un’intima percezione, fanno maturare la decisione di compiere un atto che serve a se stessi.

Ma la riflessione di Hannah Arendt iniziale ci serve per andare in una direzione diversa rispetto agli infiniti cunicoli psicologici in cui male e cattiveria si inseguono, e che sono stati declamati dalla letteratura di sempre.

È la sfida fra male e pensiero – intuita dall’allieva di Heidegger- che ci permette di trasporre l’emotività letteraria che ha fino ad oggi contemplato l’azione della cattiveria nei rapporti umani nel nuovo ma già esteso ed articolato mondo digitale.

In particolare in quell’intromissione nello spazio ancora oscuro che separa cervello da coscienza, dove si sta insinuando la potenza dei sistemi di intelligenza artificiale.

Nelle poche settimane che sono intercorse fra la proposta di concorrere ad una riflessione sul concetto di cattiveria da parte della rivista che state leggendo e il momento in cui ho cominciato ad elaborare il testo è esploso il fenomeno ChatGPT.

Si tratta, come è ormai noto, e sicuramente sarà ancora più perfezionato al momento in cui il mio testo sarà diffuso insieme all’intera rivista, di un dispositivo di intelligenza artificiale, gestibile individualmente, come un’app da smartphone, che elabora e compone testi, musiche, software e quanto altro il pensiero può elaborare sulla base di una richiesta, di una pura sollecitazione personale.

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