Il poeta lavora?

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Nel primo Manifesto del Surrealismo, André Breton cita il seguente aneddoto: «Si racconta che ogni giorno, al momento di addormentarsi, Saint-Pol-Roux facesse mettere sulla porta della sua dimora di Camaret un cartello sul quale stava scritto: IL POETA LAVORA». Si tratta certo di una bella boutade atta a sottolineare l’importanza dell’onirismo in poesia. Il poeta lavora? Si direbbe di no. E non solo di notte, se non fa altro che dormire e non scrive nemmeno una riga, ma ormai neppure di giorno. Ridotto, per così dire, a un editorial homeless (senza casa editrice), a pubblicare a proprie spese, estromesso dal mercato senza lettori e senza critici che se ne interessino, sa fare una cosa che non serve più, è allora da contare tra le “facoltà sprecate”. Sebbene la parola “poesia” derivi dal greco poiein, che significa “fare”, il poeta pare davvero che non faccia più niente. Eppure una risposta affermativa alla domanda del titolo è possibile, a patto però di fare un giro piuttosto largo, passando per questioni generali.

Di “facoltà sprecate” ce ne sono molte altre, nel nostro mondo. Il che significa, in altre parole, un errato investimento nella formazione da parte della società. L’“esercito di riserva” di cui parlava Marx, tenuto in caldo per i momenti di espansione produttiva, è diventato uno spazio di emarginazione. Da “riserva” tenuta in panchina, adesso somiglia piuttosto alla “riserva indiana”. E si parla, non a caso, di “fine del lavoro”. La “piena occupazione” – che a me sembra, d’accordo con Bellamy e la sua “leva del lavoro”, il modo giusto dell’essere sociale –, riconosco che sia un’utopia al massimo grado di lontananza (e pensare che Bellamy la prevedeva nel 2000!). E alcuni parametri basilari del discorso marxiano appaiono inopinatamente ribaltati. Vogliamo parlare dello sfruttamento? Ma ora c’è la fila per essere sfruttati (oh “servitù volontaria”!) e ci si fa la concorrenza e la guerra fra poveri… La differenza tra sfruttatori e sfruttati? Ma l’imprenditore è un benefattore e il fenomeno delle partite IVA ha dimostrato in modo sottilmente ironico che in fondo anche il lavoratore è un imprenditore, non altro che l’imprenditore di se stesso. Il plusvalore? Ma andiamo: è il minimo profitto che si trae doverosamente da un investimento in cui si è rischiato il proprio capitale. La proprietà privata, poi, che a qualcuno sembrava un furto, la si difende dai furti con ogni sforzo possibile e allarme armato.

E non parlo a vuoto del privato, perché c’è un altro paradosso. Se da un lato si preme per entrare nel mondo del lavoro, sia pur precario, spesso sottopagato e per quanto vessatorio esso sia (con lettera di dimissioni già firmata all’atto dell’assunzione, magari), dall’altro lato non si vede l’ora di abbandonarlo. È la “strategia della pensione”. Si è visto cosa è accaduto in Francia a causa di un prolungamento. A dar ragione al mito biblico, che il lavoro è una condanna simile alla morte, e allora finisca al più presto in modo da godersela la vita, da anziani nullafacenti arzilli e possibilmente danarosi. Non è poi così strano il volere entrare nel mercato del lavoro per uscirne quanto prima. Corrisponde all’edonismo individualistico imperante che ottempera al precetto evangelico dell’amore del prossimo fin troppo alla lettera: prossimo oggi significa “vicino” e comprende al massimo familiari e amici, non sempre i vicini di casa. Lo stato è tenuto a mezzo servizio: meno stato quando è esattore, intervenga invece a ripianare danni e difendere privilegi. La formula del “reddito di cittadinanza” sovrapposta alle agenzie per il lavoro la dice lunga su come il donativo prevalga sull’obbligo. Perduta la coscienza di classe rimane la plebe. E dove il meccanismo s’inceppi arriva la rabbia. Lo sapeva già, più di cento anni fa quel pensatore anomalo che era il giovanissimo Carlo Michelstaedter:

E insieme protestano contro il destino, e bestemmiano la forza che rompe le loro sicure felicità: (…). Poiché il loro comodo personale è loro la realtà — la sciagura che lo interrompe è la forza trascendente: il diavolo. — Questa stessa impotenza si fa manifesta anche in ogni piccolo inceppamento del comodo d’ognuno, quando ognuno, per avergli attribuito valore e sicurezza assoluta, anche dopo averlo perduto non sa capire la giustizia delle altre cose che coscienti o no l’hanno inceppato, e allora s’arrabbia. Le grida e le bestemmie degli arrabbiati, il cigolio continuo della macchina sociale – questa è la voce dei popoli! (La persuasione e la retorica)

Ma il discorso va allargato ancora ulteriormente. La classica distinzione tra base e sovrastruttura come se fossero i piani di un edificio (dove la poesia sembrava occupare gli ultimi piani, forse l’attico in vicinanza delle nuvole) non regge più di fronte all’impazzimento del capitale finanziario che si genera da se stesso e gioca alle scommesse come un puro spirito in piena smaterializzazione. Occorre pensare lo stretto rapporto di produzione e comunicazione, perché non c’è merce senza messaggio e viceversa. Ciò è stato visto tempestivamente da Guy Debord, ne La società dello spettacolo (1967), che parte in tromba con una brillante parodia di Marx: 

Tutta la vita delle società in cui predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.

Lo spazio del tempo libero, in apparenza disponibile e vuoto, vediamo come la tecnologia lo abbia riempito sempre più di relazioni con la connessione totale h24. È non è solo l’invadente pubblicità che indirizza il gusto che di poi l’algoritmo ci spiattella rivelando a noi stessi cosa ci piace. Siamo anche circondati (assediati) dalla fiction, un racconto infinito che va dall’autobiografia alla fantascienza, decisivo nella “fabbrica del desiderio”. Ciò che riceve attenzione e evidenza è la produzione del consumatore. Pensiamo di cedere solo la forza lavoro, ma quello che viene colonizzato è la vita intera. Un altro vecchio mentore, che ci faceva da ragazzi da livre de chevet, è il Marcuse, per esempio in questo brano:

Oggi questo spazio privato è stato invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. I molteplici processi d’introiezione sembrano essersi fossilizzati in reazioni quasi meccaniche. Il risultato non è l’adattamento ma la mimesi: un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società e, tramite questa, con la società come un tutto (L’uomo a una dimensione).

Rispetto a quei tempi, l’ideologia come visione del mondo si è ritirata lasciando spazio all’immaginario collettivo; altrettanto lo stato ha lasciato spazio al mercato. Tanto che, proprio alcune istituzioni, che Althusser additava quali custodi del sistema (gli AIS: Apparati Ideologici di Stato), attualmente risultano essere luoghi di resistenza del bene comune, come la scuola, e perciò visti come zone improduttive, lasciate a disfarsi.

La poesia è fuori del sistema economico? In senso stretto sì: per quanto riguarda la vendita, è prevalentemente pubblicata a fondo perduto e a proprie spese. Ma in realtà, più rifluisce nel privato e più del privato tende a occuparsi. Sentimento, intimità, emozione, magari addirittura sacralità, vanno a costituire un’oasi alle brutture dell’esistenza di tipo compensativo e consolatorio. Espressione di sé e esibizione dell’io in gara con l’esternazione dei social. Ma il vedersi proprietari di una identità interiore non è esattamente in linea con l’ideologia del privato e l’individualismo edonistico che si diceva? La poesia fa uso del linguaggio e le parole sono un prodotto sociale e dunque questo sé incomparabile una volta che viene costruito di parole è, in sostanza, fatto da altri. L’anima è una retorica e l’autentico il massimo dell’inautentico. Poiché il linguaggio – come avvertiva a suo tempo la semiotica materialista di Rossi-Landi – è un “lavoro” e un “mercato”, contribuisce al “capitale linguistico” e fa la sua parte nella complessiva “riproduzione sociale”. Produce, ovviamente intendendo la produzione in senso ampio, come faceva Walter Benjamin nella sua fondamentale conferenza su L’autore come produttore (1934). Ebbene sì anche il poeta lavora! Può anche non guadagnarci nulla, ma questo non vuol dire, esistono pure i “volontari”, no? Così, intanto, l’idea del “lavoro linguistico” comincia a togliere l’enfasi della purezza e della sublimità, quell’aureola (vedi Baudelaire, che la sentì cadere) che fa della poesia un misticismo laico. E tuttavia il problema non è risolto, in quanto l’inserimento nella produzione potrebbe far perdere la tensione dell’alternativa. Sia ben chiaro che non sto auspicando un allineamento ai parametri di mercato, per i quali dopotutto molti poeti avrebbero le carte in regola, se lo spazio non fosse già coperto dalla musica leggera. Il punto è come fare una produzione diversa.

Il linguaggio è il veicolo dell’ideologia, ma anche quello della libertà. Se – formulo un’ipotesi – ha una posizione mediatrice, allora in teoria è possibile orientarlo diversamente. In pratica, però, il peso sempre maggiore dei segni nella riproduzione sociale è inversamente proporzionale alle difficoltà di trovare margini di manovra e l’autentica alternativa ha scarsa diffusione sotto la dittatura del mercato e resta confusa nel moltiplicarsi di false alternative. Per sottrarsi alla sua funzione, la poesia dovrebbe operare sottilmente contro se stessa in una sorta di auto-sabotaggio. Con Brecht: “segare il ramo su cui si sta seduti”. Ma come può esserci un’antimerce? Una sedia scomoda non la vorrebbe acquistare nessuno. Oppure, in altre parole: la critica del lavoro può considerarsi essa stessa un lavoro?

Se partiamo dall’idea che anche la poesia sia un lavoro, allora l’abbiamo di fatto trasferita dall’ambito del privato in cui si è rifugiata, all’ambito del bene comune. Il tal caso bisogna capire quale può essere il suo contributo. A una valutazione di primo acchito si potrebbe opinare che si trovi nelle tematiche sociali e quindi in una sorta di impegno etico-politico. Ma quel compito dovrebbe in realtà essere assolto altrove, nel campo della mobilitazione, dell’attivismo culturale, del giornalismo, ecc. Se il poeta lavora, allora il suo lavoro è un lavoro specifico, cioè sulla materia linguistica. Ecco che si affaccia una diversa produttività che si configura in un’opera di disinfestazione e di espansione esattamente contraria all’uso sloganistico e semplificato delle parole (ricordate la “neolingua”?). Un contributo di disautomatizzazione delle coscienze e di decostruzione dell’identità. O, come ha sostenuto recentemente Rancière, una nuova “partizione del sensibile”.

Ma come fa una messa in crisi, cioè un dispiacere, a diventare positivo? Per affermarlo, mi trovo confortato da un recente argomento di Slavoj Žižek: «la domanda da porre è questa: perché riprodurre angoscia e orrore nell’arte è sovversivo e non una semplice mimesi che alimenta l’alienazione dell’attuale vita sociale? La risposta è semplice: il solo fatto di esprimere angoscia e dissonanza è un atto di liberazione, che ci consente di guadagnare una certa distanza dall’ordine esistente» (Libertà una malattia incurabile, 2022).
Si dirà che la poesia è già abbastanza emarginata per non essere ancor di più messa in difficoltà da pratiche antagoniste radicali che la sottopongano a rotture e straniamenti. Per dir così: è inutile sabotare una barca che affonda; e: perché turbare la pace di un’agonia moribonda? Eppure, eppure. Proprio lo stare ai margini del mercato può favorire l’uso della poesia come luogo di sperimentazione e verifica di nuove possibilità. Una, sia pur minima, chance rivoluzionaria. Se i margini di manovra, dal punto di vista dell’egemonia, sono strettissimi, davanti alla pagina bianca sono piuttosto consistenti. Tolta ogni preoccupazione del target, scrivendo non si sa per chi (“per tutti e per nessuno” come diceva lo Zarathustra nicciano) posso dare alla parola il massimo di estro e di rigore magari esibendo nella vociferazione la mia propria libertà spettrale.


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