09 Giu La cattiveria nei sonetti di Belli
di Marcello Tedodonio
È curioso: “cattiveria” e “cattività” derivano dalla medesima radice latina, captivus, derivato di capĕre, “prendere”. “Cattivo” dal punto di vista etimologico significa dunque “preso, catturato”, e il significato odierno (in realtà significati ne ha tantissimi; per sintetizzarli possiamo dire “l’opposto di buono”, perché può significare: “malvagio, perverso, disposto al male, disonesto, non retto, riprovevole, degno di biasimo o di condanna morale, indocile, capriccioso, irrequieto, scontroso, intrattabile, facile alla collera e ai cambiamenti di umore, scortese, restio a concedere, privo dei requisiti necessari alla sua condizione, che viene meno al suo dovere, incapace, inetto, difettoso, insufficiente, di qualità scadente, scorretto, disagevole, di poco o nessun pregio, non soddisfacente, difficile, stentato, inquieto, nervoso, spiacevole, sgradito, guasto, dannoso, svantaggioso, avverso, poco propizio, dannoso, svantaggioso, inopportuno, avverso, poco propizio, infausto, sinistro, doloroso, indesiderato”, e altri…) ha avuto origine dalla locuzione del latino cristiano captivus diaboli, “prigioniero del diavolo”. E “cattiveria” significa “l’esser cattivo, malignità, indole cattiva, malizia”, mentre “cattività” significa “schiavitù, prigionia, stato di servitù”.
Tutto ciò lo abbiamo appreso dal vocabolario Treccani.
Dunque, e comunque, medesima radice delle due parole.
Domanda: chi è cattivo lo è perché prigioniero, o chi è prigioniero è per ciò stesso cattivo? Essere cattivi significa dunque essere prigionieri? Ed essere prigionieri comporta l’essere cattivi? La cattiveria è una schiavitù? Dunque il contrario di “cattiveria” non è “bontà”, ma “libertà”? E il contrario di “cattività” non è “libertà” ma “bontà”?
Ma è cattivo chi strappa il pane di bocca ai figli? Bèh si, certo. Eppure, ci disse Elisa Springer ad Auschwitz: «Voi non avete idea di che cosa si può fare per fame», e stava raccontando appunto di una madre lì prigioniera che aveva strappato dalla bocca alla figlia un pezzo di pane, tutte e due poi finite nella camera a gas.
Tutto ciò serve a (non) introdurre una mia breve riflessione appunto sulla cattiveria che sottopongo agli amici di Malacoda, nel ricordo attento e pieno di nostalgia per Mario.
C’è cattiveria nei sonetti di Belli? E ci sono “cattivi”?
Risposta banale ma sfacciata e definitiva: e certo che ci sono. E sono senz’altro la grandissima maggioranza degli esseri umani rappresentati, tanto che farne una antologia appare insensato. Cattivi che non sono presenti soltanto nelle classi dirigenti… che poi “classi dirigenti” è una sintesi/semplificazione linguistica tratta dal mio passato/presente di analista delle contraddizioni di classe come chiave di lettura della storia e di tutti i suoi fenomeni: giacché in realtà di “classi dirigenti” nella Roma del papa ce ne era una, i preti, tutte le altre classi (che poi erano due: l’aristocrazia sfaccendata e feudale dei signori delle grandi famiglie, e la “plebe abbandonata senza miglioramento”, che viveva solo perché riusciva a racimolare qualche lavoro dai signori; la borghesia, quella che c’era, erano impiegati statali; e si badi che questo che scrivo in parentesi non è una banale semplificazione, ma la pura sostanziale realtà) essendo e rimanendo classi subalterne e prive di qualsiasi possibilità di decisione.
Allora, dicevo: nei sonetti di Belli i “cattivi” non sono solo tra i rappresentanti della classe al potere, la gerarchia vaticana, e dei suoi servi, gli aristocratici, ma anche nella plebe. Nessuna visione finalistica, nessun paternalismo, nessuna “faziosità” ideologica. Davvero Belli si colloca nel solco della linea Boccaccio-Manzoni e anticipa la scelta verghiana. Equanime, imparziale, ma certo non indifferente. Per cui quel male, quella negatività, quella prepotenza, che certo nasce dalla organizzazione stessa del potere e dalla sua impossibilità a modificarsi, poi ricade su tutta la società nel suo complesso, in un evidente e inevitabile rapporto causale senza possibilità di cambiamento giacché «Sicutèra in principio e nunche e ppeggio» (Una bbella penzata, 21 dicembre 1846).
Se dunque le cose stanno così, e così in effetti stanno, la cattiveria nella sua natura composita e dialettica di “non bontà” e “non libertà” è una sorta di filo conduttore, di trama segreta e profonda e necessaria alla vita dell’omo come può svolgersi in quella società, giacché solo chi è libero sceglie, e può dunque scegliere anche di essere cattivo. E infatti, riprendendo lo spunto iniziale del ragionamento, in ciò che i sonetti di Belli rappresentano cattiveria e cattività si identificano e rinviano l’una all’altra.
Pochi pochissimi esempi.
La cattiveria del potere, istituzionale.
La carità ddomenicana
M’è stato detto da perzone pratiche
che nun zempre li frati a Ssant’Uffizzio
tutte le ggente aretiche e ssismastiche
4 le sàrven1 coll’urtimo supprizzio.
Ma, ssiconno li casi e le bbrammatiche
pijjeno per esempio o Ccaglio o Ttizzio,
e li snèrbeno a ssangue in zu le natiche
8 pe cconvertilli e mmetteje ggiudizzio.
Lí a sséde2 intanto er gran inquisitore,
che li fa sfraggellà ppe llòro bbene,
11 bbeve ir3 zuo mischio e ddà llode ar Ziggnore.
«Forte, fratelli», strilla all’aguzzini:
«libberàmo sti fijji da le pene
14 de l’inferno»; e cqui intiggne li grostini
30 marzo 1836
1 Salvano. 2 A sedere. 3 Ir per «il»: sforzo di parlar gentile, dicendosi veramente dai Romaneschi er.
Non sempre tutte le persone eretiche e scismatiche vengono salvate con l’ultimo supplizio (cioè con la morte) dal Sant’Uffizio, che appunto sceglie secondo i casi chi “snerbare” per convertirli e perciò salvarli. E così ecco l’inquisitore che fa sfraggellà (che è “flagellare” e anche “sfracellare”), sempre s’intende per il loro bene, per “liberarli” dalle pene, tutti gli eretici, e lo fa fare mentre intinge i crostini nella sua bevanda composta da caffè e cioccolata.
L’evidenza teatrale del sonetto è tutta nel gesto del grande inquisitore che intiggne li grostini mentre i suoi aguzzini stanno “sfracellando” le persone da convertire. La sintesi estrema cui costringe la misura breve del sonetto conduce a tratti essenziali, fulminanti: al verso 4 l’idea della salvezza legata al supplizio (la condanna a morte) si conferma ai versi 7-8 con quella delle frustate sulle natiche per ottenere la conversione (la tortura) e si giustifica al verso 10 con l’inciso che sintetizza in un quinario l’essenza dell’ideologia cattolica controriformista: ppe llòro bbene (la giustificazione della crudeltà e della violenza); così l’immagine finale dell’inquisitore che fa colazione mentre qualcuno viene torturato (e si noti ai versi 11-12 la forte allitterazione in z) completa il quadro connotando il giudice di un cinismo assoluto, come vuol suggerire anche l’affettazione civilesca dell’articolo (ir). Cattiveria. Cattiveria assoluta che si autogiustifica in maniera altrettanto violenta e, davvero, scandalosa. La cattiveria dell’Inquisizione (di tutte le inquisizioni, ovviamente), della presunzione di possedere LA Verità.
La cattiveria quotidiana: uomini e donne.
Er marito assoverchiato
Gode, gode,1 caroggna bbuggiarona.
Bbrava! strilla un po’ ppiú, strilla ppiú fforte.
Troja, fàtte2 sentí: vva’, pputtanona,
4 spalanca le finestre, opre 3 le porte.
Mó è ttempo tuo: oggi vò a tté4 la sorte.
Scrofa, lassela fà 5 ssin che tte sona.
’Na vorta ride er ladro, una la corte;
8 e la cattiva poi sconta la bbona.
Te n’ho ppassate troppe, foconaccia:6
ecco perché mm’hai rotta la capezza,
11 vacca miggnotta, e mme le metti in faccia.
Ma schiatterà er tu’ porco de prelato,
e allora imparerai, bbrutta monnezza7
14 cosa vò ddí un marito assoverchiato.
18 marzo 1834
1 Godi, godi. 2 Fàtti. 3 Apri. 4 Vuol te. 5 Lasciala fare. 6 Questo nome corrisponde nel senso a tutti gli altri titoli, de’ quali questo povero marito onora la sua buona moglie. 7 Immondezza.
Il marito soverchiato, messo sotto i piedi, urla alla moglie bbuggiarona (“buggerona” sia in senso proprio, come peggiorativo di “donna che fotte”, sia come imprecazione generica, “grandissima”) che si immagina stia violentemente picchiando. E le grida che finché le andava bene poteva comportarsi come le pareva, ma poi a lui si era rotta la cavezza e appunto non aveva più intenzione di fargliele passare.
Strano questo verso conclusivo che riprende il titolo del sonetto: pare quasi di assistere a una commedia goldoniana in cui spesso il protagonista chiude proprio con la citazione del titolo, con la formula: «il pubblico si ricorderà di» eccetera, cioè proprio cosa vò ddí. Il sonetto consiste in un elenco di sinonimi di “puttana” (i «titoli» di cui parla Belli nella nota 6), quattro diretti (troja, puttanona, scrofa, foconaccia), e un paio generici (caroggna bbuggiarona e bbrutta monnezza) che un uomo attribuisce, stavolta a ragion veduta, alla moglie; come poi spesso accade nei sonetti, soltanto alla fine, al terzultimo verso, si viene a sapere che l’amante della donna è un curato e questo ovviamente rende la situazione comica e al tempo stesso tragica: tragica per l’uomo anzitutto; tragica per una società con campioni di ipocrisia come questo parroco. La violenza e la prepotenza dei ruoli causano la violenza, e la ferocia, dei rapporti umani.