Gozzano e la lastra sottile di ghiaccio

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Gozzano dà le dritte giuste, a me sembra; e il suo contributo è tutt’affatto ineccepibile. I luoghi da visitare, tra La via del rifugio e I colloqui, sono un buon numero, ma è particolarmente lo spazio-tempo di Invernale, che abita l’una e l’altra raccolta, a rendere decisiva testimonianza. 

Qualcosa che tiene della fragilità è dichiarato dapprincipio, senza indugi. La citazione dantesca (Gozzano è un dantista sopraffino, che converte i prelievi ipotestuali in autoironia della scrittura) vale da esplicito, clamoroso annuncio – tra visivo e sonoro – di un’incrinatura sfociata in arabesco (il verbo rabescare, non comunissimo, gode di speciale favore nel primo Novecento, suggerendo gli avvolgimenti fioriti del liberty, tanto quelli in punta di pennello quanto quelli per battute di ferro): «“…cri…i…i…i…icch” / l’incrinatura il ghiaccio rabescò, stridula e viva».

Il ghiaccio è fragile, si sa, e di più lo è la superficie ghiacciata, una lastra sottile, di un laghetto del parco di una città posta ad un’altitudine non esattamente montana. Epperò la fragilità del ghiaccio, chiamata alla ribalta con rumore sinistro, induce una serie di atti forti, commendevolmente forti, nella poesia. Convoca Dante, che non è gettonatissimo in quel torno di tempo, sul finire degli anni dieci del secolo scorso (poi, nei versi seguenti, Gozzano si gioca altre due carte della Commedia); sprigiona una sonorità acuta, graffiante, che non s’addice alla poesia di buone maniere; genera un cortocircuito tra la materia versale validata da garanzie eccellenti (c’è pure un “fuggitiva” di mezzo) e la quotidianità un bel po’ banale, stile “La domenica del Corriere”, delle gesta della brigata («“A riva! A riva!…” un soffio di paura / disperse la brigata fuggitiva») dei giovani, scanzonati schettinatori; modula su altre tonalità, ancora ironiche, i suoni che i futuristi traggono dagli spartiti delle città industriosamente febbrili e che si accingono a trasferire nella improvvisazione fauve di un intonarumori; sostiene il racconto, determinando movimento, producendo suspense, profilando una linea di poesia (appunto una poesia-racconto) che si manifesta in controtendenza a fronte del lirismo estetizzante che furoreggiava allora (e tuttora furoreggia). E sono tutte evidenze dell’energia caricata nella scrittura letteraria da una messa a dimora (dalla semantica, dalla politica poetica) della fragilità.

Ma non finisce qui. Mentre la brigata degli schettinatori dilegua lasciando la pista del lago ghiacciato (l’incrinatura è “viva”, dunque allarmante, sospettabile di crescita), sul palcoscenico del Valentino rimangono lei e lui: i due eroi o meglio, in primissimo piano, l’eroina, una dannunziana “femme fatale” in teatralissima posa da tragica dusiana, invita all’impresa e alla prova iniziatica (alla prova d’amore: «“Resta, se tu m’ami!”») il suo compagno in evoluzioni sulla superficie di ghiaccio rabescata, così da poterlo, affrontato eroicamente e superato il pericolo, considerare degno, di rango pari al suo. Epperò basta un niente di resipiscenza e l’eroe in pectore si “incrina” a sua volta. Si divincola dall’abbraccio, dai «vivi legami» di lei (“vivi” come “viva” l’incrinatura), lei avvinta a lui come in una ibridazione metamorfica, e abbandona la partita, salutato da uno sdegnoso rimbrotto, mascherato da un convenevole da bon ton: «Signor mio caro, grazie! E mi protese / la mano breve, sibilando: – Vile! –». 

Né eroe né antieroe, il “fragile” giovanotto “svincolato” è un non eroe, come si conviene a chi, miracolato dalla coscienza del limite, ha ripulsa per il vivere pericolosamente, sovrapponendo la letteratura alla vita (confondendo l’una con l’altra), e dunque si trae in salvo da qualunque stentorea estetizzazione acritica da rodomonte, da guitto. 

L’incrinatura del ghiaccio, fattosi fragile e periclitante, ha scoperto una sana fragilità. E la fragilità annuncia, per i talenti di una letteratura antifrastica, a contraggenio, il personaggio nuovo, il personaggio-chiave, il personaggio forte del romanzo europeo del Novecento, il personaggio perplesso dell’inetto, benvenuto anche oggi in un mondo che santifica una quantità industriale di eroi – per lo più sedicenti eroi di infima lega –, un mondo che al meglio non dovrebbe aver bisogno di eroi.   


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