13 Lug Quattrucci e Lunetta: un impegno ‘contro’
Intervento pubblico di Ginevra Amadio in occasione dell’evento spettacolo I due MARII tenutosi il 6 luglio al Teatro Porta Portese su Mario Lunetta e Mario Quattrucci
Quando sono entrata in Malacoda, su segnalazione di Simone Oggionni – che ancora ringrazio – Mario Quattrucci era già il faro di questa rinascita. Un nume tutelare, il punto fermo di un processo culturale. A lui abbiamo dedicato un numero monografico, poi presentato qui, al Teatro Porta Portese, lo scorso 22 novembre. Il contributo che allora avevo elaborato, a quattro mani appunto con Oggionni, ruotava attorno al genere giallo, uno dei ‘pallini’ di Quattrucci, e alla sua capacità di svuotarne i canoni, di ribaltarne gli stereotipi. Mi pare interessante riprendere oggi quel ragionamento, saldando quanto elaborato all’attività parimenti controcorrente di Mario Lunetta, scomparso come il suo omonimo il 6 luglio.
Si farebbe torto a ridurre la produzione di Mario Quattrucci entro i confini della letteratura di genere, concependo egli il giallo come luogo geometrico di singoli motivi, lo spazio entro cui declinare impegno e riflessione critica, un piacere quasi istintuale per la polemica e un’attenta, impietosa indagine sui meccanismi del potere. Alla «misticanza» linguistica – così definita da Quattrucci nella postfazione a Fattacci brutti in vita del Boschetto – si affianca un intento parodico che guarda alla lezione di Leonardo Sciascia e Carlo Emilio Gadda, laddove gli stereotipi, la tecnica narrativa, l’essenza stessa del giallo sono ripresi e svuotati con acume di grande scrittore. Due elementi fondamentali del genere vanno anzitutto messi in evidenza, ovvero l’iper-caratterizzazione dei personaggi e, per riprendere un’espressione cara a Sciascia, la centrifugazione della realtà che procede a partire da una struttura fissa, giacché la trama degli eventi appare smembrata da un fatto eccezionale (la morte di un uomo). Compito del detective – del tutore dell’ordine – è appunto ricomporre tale trama, cucire lo strappo tentando di riallacciare i fili del passato, secondo uno schema ben collaudato e fissato dal giallo anglosassone di Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle, Agatha Christie.
Nei romanzi di Quattrucci, tuttavia, non si ha mai a che fare solo con un delitto. Le indagini del suo commissario Gigi Marè imboccano strade che si dipanano, si dilatano, subiscono brusche interruzioni o incrociano falde sotterranee, variamente attraversate dal «polverio delle storie e dalla storia del Paese». La morte non è un fatto isolato, un mero atto violento, ma resta uno ‘scandalo’ che turba il lettore perché coincide con l’occultamento del reale, della verità come ultima soluzione. Nella misura in cui i gialli quattrucciani non presentano la ricomposizione della trama, o meglio ne ‘abbozzano’ una priva di efficacia sociale, il delitto ha le sembianze dell’ordinaria amministrazione e serve all’autore per mostrare la cifra di una società corrotta, che non a caso assume Roma come teatro della scena, ben riconoscibile nei suoi scorci e vicoli, nell’umanità variegata che ne popola i quartieri facendo da sfondo alla Capitale «del furto, dell’imbroglio, del raggiro, del sistema bancario uno e trino, del riciclaggio dei piccioli di cosche e ‘ndrine, delle trame, dei misteri di Stato, dei complotti, delle spie, della P2, dei frammassoni, delle tonache e delle toghe imparentate a Satanasso».
In queste condizioni non può svolgersi alcuna indagine capace di rammendare il tessuto strappato, di mettere insieme i pezzi del puzzle scompaginati dalla centrifugazione. Lo ha ben mostrato Gadda, a cui Quattrucci rende omaggio persino nel titolo di Fattacci, che da un lato riecheggia l’omonima raccolta di Vincenzo Cerami (Garzanti, 1997) su quattro famosi delitti della seconda metà del Novecento; e dall’altra, con quel ‘brutti’ a marcare il dispregiativo, è un chiaro riferimento a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Garzanti, 1957), dominato da una «disarmonia prestabilita» che genera un flusso di eventi, parole, ipotesi senza un termine e un fine. Quattrucci, pur arrivando a indicare un colpevole, non conferisce efficacia al lavoro di inchiesta, ma la ri-presenta come un percorso sospeso, poiché la destrutturazione del reale causata dal fattaccio permane, e diviene emblema di un mondo in sfacelo.
È in questa prospettiva che è possibile leggere i gialli quattrucciani in chiave parodica, una parodia intesa come motore, come veicolo di evoluzione letteraria. Così, persino la figura del commissario non è più un conoscitore di scienza bensì uno pseudo-letterato che legge – non a caso – Carlo Emilio Gadda («il gran lombardo suo preferito» scrive l’autore in Fattacci), che viene dal Partito d’Azione e ne applica il rigore morale. In questo, a dimostrazione della raffinatezza di Quattrucci, Marè è simile ai detective sciasciani, al Rogas de Il contesto (Einaudi, 1971) o al capitano Bellodi de Il giorno della civetta (Einaudi 1961) che legge Tomasi di Lampedusa e l’abate Giovanni Meli. Scherzando con la meccanica del giallo, sovvertendone gli stereotipi attraverso una tecnica narrativa che pur recupera i flashback e i fili narrativi interrotti, l’autore seduce il lettore per poi turbarlo, muovendosi in equilibrio tra rassicurazione e angoscia, tra modelli interiorizzati e demitizzazione della norma.
Allora si capisce perché Quattrucci stravolge le forme del poliziesco tra intertestualità e funzione parodica. In Fattacci brutti a via del Boschetto, parlando di Pinocchio, scrive che questi «si era messo a contestare tutta la falsità del perbenismo e del servilismo che impregnava il mondo. La menzogna della giustizia alla rovescia». Come Gadda, come Sciascia – e diversamente da Poe, da Georges Simenon – Quattrucci non può concepire un ordine statale limpido, scevro da collusioni tra criminalità e potere. Per raccontarlo è necessaria una forma nuova, un linguaggio che guardi alla tradizione rinnovata e si apra all’oggi, fuori dai troppi prodotti di consumo, che prediligono la trama all’oscurità dei sottotraccia.
È, a tutti gli effetti, una presa di coscienza, un equilibrio di forma e senso che trova eco nell’opera – varia, debordante, potenzialmente interminabile – dell’altro protagonista del nostro incontro, quel Mario Lunetta precorritore dei generi rimescolati, poeta e scrittore, saggista e ‘performer’, capace di capire come l’ibridismo, il testo anfibio, o la semplice rottura dei confini sia il miglior mezzo per decifrare il presente. Nel 1960 Calvino scriveva uno dei saggi-tappa più lucidi del panorama letterario della “nuova Italia”, intitolato Il mare dell’oggettività. Vi si legge:
Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza, la volontà, il giudizio individuali, dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui il primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste.
Una coraggiosa presa d’atto, che segna nero su bianco l’avvenuto mutamento di rapporti tra l’intellettuale e il mondo esterno. Non c’è espressione più incisiva del «mare dell’oggettività» per rendere conto dell’evidente impotenza espressiva dello scrittore dinnanzi al reale. Appare infatti sempre più lontano il tempo della partecipazione canonica e tradizionale alla costruzione di una società migliore. La realtà “oggettiva” ha preso il sopravvento sulla volontà individuale, «è qualcosa che risponde sempre meno a progetti o previsioni, qualcosa che è sempre meno padroneggiabile, che rifiuta ogni schema e ogni forma». Ne consegue la crisi del motivo dell’impegno, meglio del rapporto lineare tra intellettuale e società. Così, sulla scia di uno smarrimento che anche Pier Paolo Pasolini definisce come ‘disastroso’ («Tutto quello che avevo pensato con grande fede, con grande slancio, con grande impeto negli anni Cinquanta, mi pareva completamente svuotato di senso», in Marxismo e cristianesimo, conferenza tenuta il 13 dicembre 1964 al circolo Grimau di Brescia), Lunetta interpreta il nuovo orizzonte epistemologico come un campo di battaglia, un terreno in cui riversare la sua forza etica e politica, così da superare lo iato tra scrittori e ‘nuove generazioni’. Ecco qui lo sguardo comune, la capacità dei due Marii di farsi interpreti del proprio tempo; anche negli anni della semplificazione letteraria, del ripiegamento verso schemi usurati, d’autobiografismo e linearità, Lunetta e Quattrucci ha confermano il progetto di una scrittura volta a demistificare l’orrore del quotidiano, le strutture di un mondo mercificato. Così, tra vis polemica e guizzi d’autore, si delinea il profilo di due scrittori ‘contro’, battitori liberi nel pensiero e nello spirito, capaci di «riportare la parola polemica alla sua etimologia greca», di una guerra contro il conformismo, contro le mode del qui e ora.
Contro il Potere, in definitiva, rispetto al quale si pongono all’opposizione, nello spazio complesso del disallineamento.