Il cattivo Angelo

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Rimane la cattiveria, con il suo compito preciso nella guerra. Forse poco definito, mutevole e flessibile. Ma parte integrante di quell’ombra presente, dal serpente dell’Eden, da Caino, fino ai nostri giorni. È la direzione della luce a scacciare l’ombra, a cambiare la visione delle cose. Ma se la direzione della luce è mutevole, lo sono anche i confini dell’ombra. Il male – predica la Bibbia – fu creato da dio stesso, ma per dirla con Pareyson, è “sempre l’uomo che lo realizza e non c’è male più potente di quello del cattivo angelo”, aggravato paradossalmente “dalla libertà, che, ignorando preventivamente che cos’è il bene e che cos’è il male, decide essa stessa che cos’è bene e che cos’è male”.

Se ci immergiamo nella tragedia della guerra, potremo condividere quanto sia innegabile vedere il cattivo come protagonista. È questo peccato, questa ansia di distruzione del nemico, chiunque sia, che permea e conferisce vigore alla tensione verso la vittoria, verso quel sentimento, anch’esso innato, di sopravvivenza agli altri, per strappare alla sorte un altro giorno, un’altra vita.

La guerra mostra spesso la verità sugli uomini. Emergono, tra miserie e tragedie, quei personaggi altrimenti destinati all’obbligo della normalità. Spesso uomini e donne semplici, che non cercano glorie personali né si pongono questioni filosofiche. In guerra non c’è tempo per discettare. Bisogna agire o morire. Spesso senza badare a dove finisce la luce e inizia l’ombra. Per quello c’è solo la preparazione che abbiamo saputo dare a quegli uomini e a quelle donne. Non solo quella tecnica, ma quella morale, educativa, etica. Quei principi e ideali che solo generazioni di civiltà possono inculcare nell’istinto. Quando, alle 6 del mattino del 3 giugno 1966, la compagnia G del 2° battaglione/1° reggimento US Marines si trovò sorpresa dall’attacco di unità vietcong, il Caporale Grable non si chiese quale storia avessero quegli uomini, né quali ragioni avessero condotto lui in quel paese, che non avrebbe saputo indicare su una carta geografica. Non si chiese chi fosse buono e chi cattivo. Non pensò neppure a sua moglie o a quel figlio che aveva visto per la prima volta un mese prima, in una polaroid speditagli al fronte. Imbracciò il fucile e in piedi, nel mezzo di un fiume iniziò a sparare contro chiunque vedesse. Cadde ferito e si rialzò continuando a sparare. Quell’azione permise a cinquanta uomini che stavano per essere uccisi di prendere una posizione coperta e respingere il nemico. Quando lo trovarono, ripiegato sul suo M-14, aveva nove nemici morti intorno a lui. Sotto la sua giubba c’erano i segni dei cinque colpi devastanti che avevano posto fine alla sua vita. Il suo Comandante, Charles Krulak, mi raccontò di quando 7 mesi dopo volò a Washington per assistere alla Cerimonia in cui la vedova, con in braccio il piccolo figlio, ritirava la Croce al Valore di Marina. Grable era un giovane Marine afroamericano. Veniva da un paesino del Tennessee, dove nel 1966 un uomo di colore non poteva neppure entrare in un Mc Donald’s a mangiare un hamburger.

Era cattivo Grable? Quali domande avrebbe dovuto farsi nel momento della prova?

Questo è un ennesimo, perfido effetto della guerra: dover pagare con indicibile sofferenza la scoperta di uomini e donne capaci di sacrificare ogni cosa per la missione che gli viene affidata. Siamo in grado nelle decine di conflitti che ancora oggi, dopo migliaia di anni che urlano l’imperfezione del nostro mondo, di distinguere chi è veramente cattivo?

Esistono, logicamente, abiezioni senza redenzione; pensiamo alle stragi inutili, ai genocidi. Ma la guerra è una condizione che risucchia coloro che la vivono in una psicosi simile ad una malattia mentale. Una condizione che rende difficile mantenere una lucidità di pensiero e azione ad individui che vivono ogni istante come se potesse essere l’ultimo, spesso consapevoli di aver già perso tutto il superfluo e di dover difendere ormai solo la propria vita e con essa, magari, quella dei propri affetti immediati. 

Ho in mente i racconti della Sarajevo a metà degli anni ’90. Gente che guardava ormai con sospetto parenti, amici, vicini di casa: qualsiasi comportamento altrui avrebbe potuto significare la morte. Chi poteva, nell’inferno di quei giorni terribili, discernere chi fosse buono e chi cattivo? A Sarajevo o nei mille altri luoghi dove “sono decine di milioni gli uccisi sottoterra” (H. HESSE, Il lupo nella Steppa, 1927).

Questa cattiveria vive costantemente in ciascuno di noi. Giacché “la prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte migliaia di uomini” (H. HESSE, cit.) nonostante la determinazione con cui, scandalizzati ma al caldo delle nostre case, indichiamo con saccente ed assoluta certezza l’evidente differenza tra buoni e cattivi. 

Le guerre sono tutte cattive. Sono i soldati, gli uomini, che possono essere buoni o cattivi in guerra. Molta parte di questo dipende dall’ambiente di provenienza. Le famiglie, la società in cui hanno vissuto, i principi che si è riusciti a far penetrare nel loro essere e da coloro che, investiti di responsabilità, li hanno giudicati idonei ai compiti affidati. Può esser vero che “Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più” (L. TOLSTOJ, Guerra e Pace, 1869) ma se, contro la propria volontà, un uomo viene precipitato in quel vortice, i confini tra ciò che è buono e cattivo si assottigliano. Egli diventa parte di un ingranaggio, costantemente alimentato da un inderogabile stato di emergenza che ne limita il libero arbitrio. Nel tempo immediato e quindi adimensionale della necessità, vi è la gravosa percezione che ogni azione avrà conseguenze sulla vita degli altri, amplificata da una conoscenza della realtà limitata, filtrata, misteriosa. Di fronte alle prove che affronta, non ha tempo né modo di essere altro che sé stesso.

Insomma: le profezie di Fukuyama non si sono avverate, la storia non è finita e l’umanità non ha ancora trovato il modo di eliminare il male della guerra. Sono tra quelli che non si illudono di poter vivere un tempo in cui questo succederà. Rifletto su come la stessa Costituzione, che difende in ogni punto la libertà e che con chiarezza statuisce il ripudio della guerra come strumento di offesa, di privazione della libertà di altri, come mezzo di risoluzione delle controversie, guarda con occhi disincantati la realtà di una civiltà imperfetta, che può tornare a sconfessare principi che vorremmo universali. Per questo impone il sacro dovere di difendere la Patria, la libertà. E chi deve farlo? Chi dovrà essere disposto a difendere i nostri figli, la nostra vita, i nostri ideali? Sarà mai sufficiente una superiore statura etica, intellettuale, sociale e la rinuncia a priori ad un confronto sullo stesso, infimo, piano? 

Ogni guerra “inizia quando un governo ritiene che il costo di una aggressione armata sia accettabile” (R. REAGAN, Discorso sulle relazioni USA-URSS, 1984). Una soglia che stabilisce l’aggressore. Come nella vicenda che si sta svolgendo a meno di 2000 chilometri da noi: 200 secondi di volo, per un missile balistico. Poco, se non si è pronti, se non si è deciso per tempo di voler rendere altissima quella soglia di “accettabilità”; poco, se non si accetta di rispondere al male con il male. 

Siamo imperfetti. Sbagliati. Cattivi. Lontani dal conseguire un rango superiore della realtà. Siamo il cattivo Angelo di Pareyson, non quello delle Elegie di Rilke. Ed è questo il destino che dobbiamo accettare. Convivere con l’imperfezione, il male, il peccato, incapaci di riuscire a interpretare davvero il futuro. Forse siamo davvero, semplicemente, come l’“Angelus Novus” di Klee. Voliamo con le ali spiegate e immobili verso il futuro, ma di spalle. Spinti dal vento impetuoso del progresso, guardando attoniti solo il passato e in esso l’affastellarsi delle tragedie occorse, senza riuscire a vedere dove quel vento ci porterà.


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