Il cattivo Angelo

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di Mauro D’Ubaldi

“с Новым годом моя любовь” [s Novym godom moya lyubov’] – “Buon anno amore mio!”

Makiivka è un abitato dell’oblast di Donetsk, dove i russi hanno costituito un presidio militare sino dal 2014. La Scuola tecnica professionale (PTU) n. 19 è un fabbricato moderno e spazioso, in una zona popolata da edifici privati nel distretto di Kirovs’kyi, lungo la via kremlivs’ka.

Da settimane le forze russe lo hanno trasformato in deposito logistico, stivando scorte di munizionamento nei piani interrati. Makiivka, mentre scriviamo, dista meno di 15 km dalla linea del fronte. Una distanza che consente comodi trasporti logistici, ma che ricade nel raggio di azione dei sistemi d’arma ucraini. Pessima l’idea di sfruttare quell’edificio come base per ospitare anche i militari destinati a raggiungere la prima linea. Il 31 dicembre 2022 una significativa presenza di personale, mezzi e munizioni, trasforma PTU 19 in quello che in gergo viene denominato un high payoff target. Un obiettivo importante, semplicissimo da geolocalizzare e verosimilmente già censito tra quelli da colpire. Mentre le televisioni trasmettono il messaggio di fine anno del Presidente russo, centinaia di reclute provenienti da Seratov, Distretto militare del Volga, scambiano gli auguri di fine anno con le famiglie. Un improvviso picco di comunicazioni dalla stessa cella costituisce un fenomeno facilmente osservabile, anche con tecnologie poco avanzate. Makiivka si accende, virtualmente, come un faro nella notte.

“48.05532° N 37.91499° E, Russian military stationed at Professional Tech school n. 19”. Bastano pochi secondi per impostare le coordinate e ordinare il fuoco dai sei tubi del lanciarazzi HIMARS in dotazione alle forze terrestri ucraine.

Gli americani lo chiamano “long range sniper rifle. Un sistema accurato, che rende gli ucraini (pur privi di munizionamento di ultima generazione) in grado di colpire fino a 70 chilometri con la certezza di distruggere pressoché qualsiasi tipo di obiettivo.

Pochi uomini intorno a quel sistema d’arma. Tra le loro mani, il destino di centinaia di altri soldati. Gente come loro. Molti obbligati dalle recenti mobilitazioni ad un ruolo che non hanno scelto, a cui si sarebbero sottratti volentieri, che nella notte cercano comunque un motivo per festeggiare qualcosa.

“Buon anno, amore mio”, dicono al telefono i padri, le madri russe ai figli, ai mariti, alle mogli.

Quale colore ha, nel nostro immaginario, la decisione di uccidere 100, 200, più nemici possibile? È un atto “cattivo”? Esiste davvero un concetto di bontà o di cattiveria in un momento come quello? È la mezzanotte dell’ultimo dell’anno. Un tempo simbolico per interrompere l’esistenza di quei nemici, di quei disperati. Di loro non rimarrà molto. Se non le testimonianze di quelli che, accorsi sul posto, hanno raccontato di essersi dovuti ripulire gli stivali dal sangue e dal cervello dei commilitoni.

Esiste, in guerra, un concetto di discrimine tra buono e cattivo?

Non è, il concetto di cattiveria, esso stesso connaturato con l’idea di guerra?

E come pensiamo che noi, i nostri figli o fratelli, affronteremmo momenti come quelli?

Sceglieremmo un atto di bontà, di clemenza? Avrebbe avuto un senso nella responsabilità che su ciascuno di quegli sventurati grava nei confronti della propria famiglia, dei propri commilitoni, del proprio Paese?

E a parti invertite? Se qualcuno avesse avuto la possibilità di evitare quella distruzione, come tutte le distruzioni senza fine che la guerra da millenni continua a infliggere all’umanità, sarebbe stato giustificato a compiere un atto di cattiveria opposta?La vita, la morte, sono un attimo. Tristemente lontano dalle narrative intellettuali: quelle vengono dopo. Quando Rimbaud descrive il dormiente nella valle o De Andrè la guerra di Piero, tutto è già compiuto. Ricostruire, anche poeticamente, cosa, come o perché sia successo, serve solo a chi sopravvive. Rimane invece la cattiveria, l’avvoltoio di Calvino, che finisce per sbranare tutti quelli che con le loro grida, invano, hanno provato a scacciarlo dalla propria terra.

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